GIOVANI E SOCIETÀ DI MASSA

parte 1

Piazza Tian an’ Men, 1989

di Andrea Soppelsa.

Non è semplice né possibile stabilire un evento o un momento storico dal quale scaturisca o, almeno, si possa parlare di una società di massa; pertanto, è preferibile osservare tutta una serie di mutamenti che, tra il XIX secolo e l’inizio del XX, hanno condotto, nel corso di un lungo processo, alla sua nascita. La guerra franco-prussiana (1870), che modifica gli equilibri di potere nel mondo europeo, e la civil war americana (1861-1865) assieme alla enorme crescita urbana dei grandi poli (Chicago, New York, Pittsburgh, Boston), con il conseguente ingrossamento delle fila della multietnica classe operaia, sono forse i marcatori di un terminus ante quem del fenomeno. Lo sviluppo demografico, l’urbanizzazione, lo stato-nazione, l’alfabetizzazione, la comunicazione, la massificazione della partecipazione politica, le forme di associazionismo sono fenomeni che, intrecciati spesso fra di loro, segnalano la novità che Gustave Le Bon, nell’opera del 1895 Le psychologie des foules, individua nel passaggio da folle a masse. Le Bon è un antropologo che, in una temperie culturale favorevole a questo tipo di riflessioni, si occupa delle masse e della loro pericolosità, teorizzando l’importanza di controllarle per ottenere potere. Riassumere la vicenda dello sviluppo storico della società di massa comporta altresì studiare anche il mutamento dei rapporti e delle comunicazioni dei giovani, cioè di quei soggetti che nel periodo tra il XIX e il XX secolo apparvero i più propensi alla mobilitazione e, in molti casi, furono protagonisti di rivoluzioni e controrivoluzioni. Per citare un importante lavoro di Eric Hobsbawm, si potrebbe parlare di “secolo lungo” dei giovani, intendendo il periodo che va dal Risorgimento al Novecento e che, idealmente, unisce lo studente volontario garibaldino al collega che si oppone ai carri armati in piazza Tian ‘an Men.

I giovani rappresentano un gruppo sociale la cui identità è data da esperienze comuni; il passaggio alla età adulta viene fissato a livello istituzionale, conferendo all’individuo delle responsabilità giuridiche e civili, che prevedono dei requisiti come l’alfabetizzazione e l’adesione al servizio militare. Diverso il discorso per quanto riguarda la questione generazionale; definire una generazione, specie in un periodo in cui la società di massa è solo a livello embrionale, è più complesso: l’identità di una generazione si costruisce su un evento o una esperienza che dura qualche anno o qualche mese; tuttavia, tale esperienza si irradia con modalità differenti in base a fattori come l’appartenenza a una classe sociale o ad un’area geografica. A partire dalla Rivoluzione del 1789 si attesta comunemente l’idea che soltanto i giovani rappresentino una classe di età portatrice di forze progressiste e, quindi, impegnata a superare il conservatorismo della Restaurazione; Giuseppe Mazzini indica precisamente chi sono politicamente i giovani, nel momento in cui pone la soglia d’iscrizione ai movimenti della Giovine Italia e della Giovine Europa all’età di quarant’anni. I primi decenni del Novecento esaltano attraverso musica, politica e arte il mito della giovinezza, che viene associata alle idee di movimento, di modernismo e vitalismo. Molti giovani europei, pertanto, partiranno entusiasticamente a passo di marcia per il fronte nell’estate del 1914, ma ben presto conosceranno la stasi della guerra di trincea.

I fratelli minori, nel frattempo, percepiscono la frustrazione per non aver potuto partecipare alla Grande guerra; questo sentimento, perlopiù, verrà riversato nei movimenti rivoluzionari o controrivoluzionari del periodo postbellico, rendendo una generazione di giovanissimi “una classe pericolosa”, che abbisogna del paternalismo di padri e fratelli maggiori per limitarne l’autonomia. Il sacrificio dei giovani nella I guerra mondiale fa risaltare due questioni politicamente rilevanti negli anni a venire: in primo luogo, si evidenzia il nesso tra potenza di una nazione e ricchezza demografica, connessione che fa rilevare al demografo Alfred Sauvy il fatto che, confrontando la riserva umana di Germania e Francia, la nazione vinta al termine del conflitto era la seconda; quindi, e di contro, emerge il costo sociale degli anziani, che diventano un peso in quanto “bocche da sfamare”. L’idea della inutilità degli anziani affiora con la guerra, che impegna in campo lavorativo anche donne e minori, e diventa palese soprattutto a partire dal 1917, in conseguenza dello stretto razionamento alimentare. Indicatore di ciò è il numero di suicidi di anziani registrato a Parigi durante la Grande guerra. Inoltre, un processo di demansionamento degli anziani era già in atto con la dissoluzione della società rurale, nella quale essi svolgevano un fondamentale ruolo di trasmissione culturale e memoriale, che svanisce progressivamente nelle società moderne a livello comunicativo, specie nella trasmissione intergenerazionale. Un rilevante tentativo di rifuggire dalle trasformazioni sociali e ambientali dovute alla rivoluzione industriale è alla base di uno dei più interessanti movimenti giovanili nati in Germania alla fine dell’Ottocento. Si tratta dei Wandervogel, letteralmente “uccelli migratori”, un movimento apolitico e ribelle al convenzionalismo, all’autoritarismo e al paternalismo. I wandervogel davano sfogo al malessere serpeggiante nella media e alta borghesia tedesca idealizzando il culto del corpo mediante nudismo, bagni di sole e danze all’aria aperta. La questione paesaggistica nell’area tedesca (e in particolar modo le foreste), del resto, rappresentarono una sorta di fondale scenico carico di simbolismi e significati per molte organizzazioni con finalità nazionaliste, come ha ben evidenziato George Mosse nel suo lavoro La nazionalizzazione delle masse.

Anche i wandervogel a inizio secolo acuirono il proprio patriottismo e nazionalismo; molte iniziative, peraltro, erano di carattere premilitare, condotte sotto l’egida di ufficiali dell’esercito. Tuttavia, bisogna rimarcare il fatto che, benché questo tipo di associazionismo abbia certamente contribuito a creare l’humus adatto all’affermazione del totalitarismo nazionalsocialista, essi rimasero fino allo scioglimento apolitici e antiautoritari. Nel segno dell’autoritarismo era, invece, il movimento degli scout fondato da Robert Baden Powell, ufficiale inglese nella guerra anglo-boera. Egli intendeva riarmare moralmente la Gran Bretagna, arrestando la degenerazione della “razza” bianca. Pertanto, i giovani dovevano irrobustirsi e saggiare la propria virilità in una serie di prove, compresa l’esplorazione del territorio (da cui to scout). Il movimento scoutistico in Inghilterra ottenne immediatamente un larghissimo seguito, soprattutto nella prole dei nuovi ceti medi e della classe operaia qualificata dei centri urbani, che era esclusa dalle public schools e dalle altre scuole d’élite. Gli scout, in breve, si occupavano di fornire loro una sorta di pratica d’avviamento professionale. Lo scoutismo statunitense fu, invece, essenzialmente uno strumento di organizzazione del tempo libero: proprio per questo, al compimento dei 14 anni, ossia alla fine dell’età del gioco, si riteneva chiusa l’esperienza dello scout. Lo scoutismo cattolico francese rispose a una duplice necessità all’indomani della fine della guerra: ricristianizzare -attraverso i giovani- una nazione che andava secolarizzandosi e fornire dei modelli (anche autoritari e paternalistici) a una generazione lasciata senza padri. Karl Liebknecht, Ludwig Franck e Henri de Man organizzarono la nascita di un movimento transnazionale dei giovani socialisti europei: nacque così nel 1907 l’Internazionale giovanile socialista (Igs) che, fino alla guerra ebbe sede e segretario (Robert Dannenberg) viennesi. I principali obiettivi furono l’educazione, l’azione antimilitarista e la sindacalizzazione degli apprendisti. Fino al deflagrare del conflitto, gli italiani (Fgs) svolsero un ruolo marginale; nel tumultuoso biennio tra il 1914 e il 1915 innumerevoli giovani socialisti divennero interventisti al seguito di Benito Mussolini, mentre la linea della Fgs rimase neutralista e pacifista. I militanti delle federazioni giovanili socialiste furono in larghissima parte protagonisti della nascita dei partiti comunisti seguenti la Rivoluzione d’Ottobre. Nondimeno, essi produssero -forse inevitabilmente- una rottura insanabile entro la sinistra europea e, altresì, la divisione del movimento giovanile internazionale. L’adesione alla Internazionale comunista venne scelta da circa il 90% dei giovani socialisti italiani; del resto, già i rivoluzionari russi, senza tener conto del Komsomol, erano quasi tutti di età inferiore ai 40 anni. Il consenso verso i compagni sovietici andò però scemando a mano a mano che andava prefigurandosi la linea della bolscevizzazione; fu allora che molti giovani delle organizzazioni nordiche decisero di rientrare nei partiti socialdemocratici.

Molti aderenti, prevalentemente fra gli studenti, vennero perduti anche perché l’Internazionale investì nella creazione di cellule giovanili sul posto di lavoro. Anche i quadri dirigenti dei Fasci di combattimento prima e del PNF poi sono allora in larga maggioranza giovani: si tratta di una generazione che giunge trentenne o quarantenne al potere e che, vent’anni dopo, incontrerà e deluderà le aspettative di un’altra generazione (quella nata nel corso della guerra o nei primi anni del fascismo) che aspirava a svolgere un ruolo di rinnovamento in un partito che andava sclerotizzandosi. Con il bando Graziani del novembre ’43, gli italiani nati tra il 1923 e il 1925 furono chiamati a una scelta: servire la sedicente RSI oppure darsi alla clandestinità e partecipare alla lotta resistenziale. In ambe due i casi, la generazione dei primi anni Venti avrebbe finito per incontrare e fiancheggiare in questa guerra civile (come l’ha definita Claudio Pavone) un’altra generazione, da una parte quella dei fascisti della prima ora, dall’altra quella degli antifascisti che erano stati costretti all’esilio.

Volontari Garibaldini

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