GIOVANI E SOCIETÀ DI MASSA parte 2.

di Andrea Soppelsa.

“I giovani sono il futuro” è il motto sovente utilizzato nei sistemi politici che avviano attività per organizzare le giovani generazioni. La conquista ideologica della gioventù assicura futuro e stabilità a un regime, tanto nei sistemi democratici quanto in quelli autoritari.

Accade nell’Austria sconfitta della Vienna Rossa, dove manifesti e slogan propagandano l’idea di un futuro radioso e giovane, e accade anche negli USA, in cui si assiste all’afflusso disordinato di popolazione europea e asiatica e al trasferimento di popolazione, specie di ex schiavi, dagli stati del sud verso le zone industriali (come Chicago) o ancora nelle aree delle grandi fonderie (Pittsburgh) e della industria automobilistica (Detroit). Il lavoro è precario e spesso impiega anche manodopera infantile (nel 1934 erano 8 mln i bambini bisognosi di pubblica assistenza).

Con l’arrivo della amministrazione Roosevelt, la questione generazionale assume rilievo mediante alcune forme di assistenza, che si prendono carico non solo della disoccupazione popolare, ma anche (ed è una novità) della disoccupazione intellettuale. Le università americane cominciano a massificarsi, ma, di converso, il sistema universitario pubblico americano non fa altro che alimentare disoccupazione intellettuale. Infatti, la popolazione studentesca statunitense ed europea nei primi decenni del XX secolo, sebbene istruita, non riesce a trovare lavoro (si veda, ad esempio, il film di Renoir, La vie est à nous). Si evidenzia anche l’attenzione per i giovani con titoli di studio, inseriti lavorativamente nei campus universitari, specialmente nella organizzazione di diverse attività di rapporto intergenerazionale.

Il governo americano osserva con interesse quanto realizzato in Europa nelle politiche giovanili, in special modo le politiche fasciste. Del resto, il fascismo aspirava ad essere un modello politico originale e alternativo alle democrazie liberali; a tale riguardo, come ha recentemente notato Antonio Costa Pinto, il maggior successo fu paradossalmente riscontrato dall’esempio del corporativismo e della Carta del lavoro, emulati da molti regimi autoritari sudamericani, ma mai pienamente sviluppati nemmeno dal fascismo italiano. Per volontà di Roosevelt nascono due organi federali per la gioventù, i Civilian Conservation Corps e la National Youth Administration (che coinvolgeva anche ragazze). Grazie a questi aiuti, la durata media scolastica e la frequenza crebbero di 1/3. Tuttavia, in aree povere e rurali chiusero molte scuole, lasciando disoccupati molti insegnanti. Gli effetti del New Deal prevennero la microcriminalità -diffusa solo nelle aree in cui i programmi federali non erano stati adottati-, favorirono la diffusione della scolarizzazione e permisero di ringiovanire il corpo degli insegnanti e dei social workers.

Il New Deal supera parzialmente gli effetti della crisi del ’29 ma non li risolve: il livello produttivo e il tasso di consumo non ritornano in generale ai livelli precedenti. Nel 1940 la marcia per la pace e la democrazia chiedeva lavoro e istruzione per i giovani; le manifestazioni chiedevano anche una legge contro le discriminazioni presenti nel paese. Eleanor Roosevelt fu allora una figura presente e ascoltata da giovani e sindacati, portatrice di un programma per la pace riassunto nello slogan “il nostro obiettivo è aiutare la gioventù europea ad uscire dalle trincee, e aiutare la gioventù americana a non entrare in guerra”. Pochi di coloro che avevano partecipato ai CCC (60%) nel 1940 avevano trovato occupazione. Di fatto il loro maggior successo fu forgiare il carattere e il corpo di giovani uomini, perfetti soldati per l’esercito americano nel momento della chiamata. I triple C furono campi di lavoro civile inseriti in una serie di opere di riassetto del territorio. Duravano dai 6 ai 18 mesi ed erano diffusi in tutti gli USA, allestiti dal dipartimento della guerra e dai servizi di protezione dell’ambiente. Non avevano una preparazione premilitare, ma il tempo era scandito da lavori in una vita collettiva all’aria aperta con un richiamo patriottico ai valori democratici. Lo scopo era occupare il tempo dei giovani, irrobustendo una generazione provata dalla crisi. La ferma non era obbligatoria e poteva essere interrotta in ogni momento. I campi vedono inserirsi nuovi immigrati slavi e italiani, ma anche afroamericani, che qui trovano una maggiore integrazione rispetto alla società civile. È vero che nel dopoguerra la questione giovanile sembra scomparire dalla agenda politica federale; nondimeno, la guerra aveva portato alla ribalta la questione infantile (si pensi all’Unicef) ed apposite commissioni di stato operavano allora in collaborazione con il neocostituito ONU.

Una nuova filantropia emerge con, per esempio, un rinnovato impegno svizzero per l’infanzia abbandonata. Nascono organizzazioni umanitarie, con esperienze che si replicano negli eventi di crisi; si crea una stagione di pedagogia alternativa, che s’interroga sulle modalità con cui affrontare la questione infantile per gli uomini che verranno. Sconfitto il nazifascismo, l’interesse statunitense è il containment nei confronti del comunismo: ciò avviene mediante aiuti economici e materiali. L’obiettivo è rieducare alla democrazia le giovani generazioni e salvarle dal pericolo di derive politiche e dalla pesante eredità della guerra. Ciò che avviene in Europa e in Giappone è un tentativo di defascistizzare e denazificare la popolazione mediante l’amplificazione dei processi, e -soprattutto nei sistemi scolastici- con un fenomeno di americanizzazione e, in alcuni casi, di anglicizzazione e francesizzazione (specie in Alsazia e Lorena). Giungono anche una serie di attività di leisure time legate agli occupanti: si gioca a baseball nelle aree occupate in Germania (e sono le uniche aree europee in cui questo sport ha avuto un certo successo), mentre la pallacanestro è stata solo apparentemente un portato statunitense del dopoguerra, essendo già praticata in epoca fascista.

Il tempo libero legato alle culture e alle classi popolari è un tema profondamente novecentesco; in precedenza, almeno fino alla fine del XIX secolo, esso era rimasto appannaggio dei ceti altolocati. È un tempo chiaramente libero dal lavoro fisico e da altre incombenze familiari di cui godono ceti sociali legati a durate specifiche del lavoro, che tende a escludere le campagne (sebbene vi siano delle modalità associative anche di tipo rurale).

Le forme di socializzazione nel Novecento non sono basate solo sulla politicizzazione, ma anche sul piacere di associarsi per svolgere attività. L’associazionismo giovanile nel periodo compreso fra la seconda metà dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale viene indagato nel lavoro di Catia Papa “L’Italia giovane dall’Unità al fascismo”. L’obiettivo è quello di dimostrare come una cultura nazionalista, respirata sui banchi di scuola e nelle pratiche del tempo libero dei giovani borghesi, abbia condotto la gioventù colta nel 1914-15 a riversarsi nelle piazze d’Italia per forzare gli equilibri politico-istituzionali e trascinare il paese nel conflitto mondiale. Alla fine del XIX secolo, la vita media era aumentata; questo fatto aveva comportato il dilatarsi della giovinezza che, assieme ai fenomeni della deruralizzazione e urbanizzazione (con la conseguente trasformazione dei mestieri) suscitano nei ceti medi il desiderio di associazionismo giovanile. È in questo contesto che si riscopre la tradizione medievale della goliardia, spirito che anima le comunità di studenti universitari, in cui alla necessità dello studio si accompagnano il gusto della trasgressione, la ricerca dell’ironia, il piacere della compagnia e dell’avventura. Quindi, pianificare la socializzazione extrascolastica per preservare il controllo familiare sulla condotta diviene un fatto basilare al fine di neutralizzare gli impulsi eversivi e indirizzare il giovane all’apprendimento di un lavoro. Di conseguenza, appare al contempo opportuno e necessario introdurre l’etica militare nel corso degli studi. Il modello britannico del giovane atleta, lo sportman, aveva esercitato ampio fascino anche sul continente europeo, provocando una ondata di anglomania nella diffusione della pratica sportiva. Tuttavia, l’associazionismo sportivo italiano fu assai gracile, in quanto decisamente più conformista di quello tedesco (che già dal 1811 conosceva un modello di palestra all’aperto, la Turnplatz, creata da Friedrich Ludwig Jahn), più elitario di quello d’oltremanica e meno internazionale degli altri. Provarsi in ascensioni alpine alle frontiere del Regno o vogare sul Tevere, creare un circolo studentesco e mobilitarsi in favore dei “fratelli irredenti”, frequentare il tiro a segno o fondare un battaglione studentesco: sono così riassumibili i moderni esercizi di responsabilizzazione sociale e nazionale della gioventù italiana. Infine, nel 1914, la guerra apparve a questi giovani l’occasione per estrinsecare l’eroismo giovanile e rigenerare il corpo nazionale. Nel periodo interessato, il Cai (Club alpino italiano, fondato nel 1864) e la sua organizzazione giovanile, il Sucai, il Tci (Touring club italiano del 1894), la Società Dante Alighieri (dal 1889), l’Audax (1898), la Lega navale (1899), l’associazione Trento-Trieste (1902) furono le società più attive anche nel campo del tempo libero giovanile. Il sodalizio studentesco Corda fratres, che inizia le proprie attività nel 1898, si distinse fra le altre perché propagandava pace e fratellanza internazionale fra gli studenti. Essa, nondimeno, non era avulsa da intenti irredentistici, benché paventati sotto l’egida della “difesa della italianità”, specie dal pericolo pangermanico o panslavo.

Nel 1902, sulle pagine della propria rivista, appare un articolo di propaganda per un ateneo italiano nelle terre irredente. È a partire da questo momento che si può affermare che l’irredentismo diviene tratto identitario del ceto studentesco, simbolo della superiore moralità della gioventù studiosa che -secondo i redattori-, ancora una volta dopo il Risorgimento, si collocava alla testa della rigenerazione nazionale. L’associazionismo studentesco milanese si sviluppò attorno alla rivista “L’Azione studentesca”, diretta da Mario Panizza, discepolo del premio Nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta. Il periodico, a partire dal 1907, iniziò a propugnare il riconoscimento del primato della nazione e il conseguente esercizio di solidarietà patriottica, quindi rivolse ai “volontari militi della patria” l’invocazione augurale Sursum corda!. Lo sdegno per il trattamento subito dai connazionali delle terre irredente era la modalità attraverso la quale Panizza intendeva “tenere desta” la coscienza nazionale e radicarla nell’animo della gioventù studiosa: questo era per lui il significato di irredentismo. In sostanza, si alimentava l’insofferenza verso la troppo prudente politica del governo su queste questioni, allo stesso tempo prefigurando la possibilità di una guerra contro l’impero Austro-ungarico alla quale i giovani italiani dovevano prepararsi sin dalle scuole.

Fu in questo contesto che avvenne la presa di distanza di Moneta dalle idee di Panizza; il premio Nobel ribadì il fatto che il pacifismo era inconciliabile con la sostanza del programma irredentista, inevitabilmente militarista e alimento dell’”infatuazione nazionalista” di una minoranza che minacciava di imporsi sull’intero paese. Nell’ottobre 1909 la rivista “Giovinezza”, finanziata dalla Società Dante Alighieri, annunciò la nascita della Federazione dei battaglioni volontari studenteschi Sursum Corda; l’idea di creare battaglioni scolastici era già largamente diffusa fra le riviste studentesche. Del resto, nei programmi di educatori e patrioti aveva fatto capolino, a partire dalla Rivoluzione francese, la formazione ginnico-militare delle giovani generazioni, portando con sé l’ideale del cittadino-soldato, forgiato nel fisico e nello spirito al culto della patria. L’introduzione dell’educazione militare, specie del tiro a segno, venne discussa ampiamente nei decenni post-unitari; alla fine del secolo, si diffuse il timore per la “degenerazione della razza”: da tempo, infatti, i risultati delle visite di leva offrivano un quadro allarmante sulla salute fisica della popolazione maschile italiana. Scipio Sighele evocò allora lo spettro della “femminilizzazione” dei giovani italiani: i mali fisici non costituivano soltanto un problema di debolezza militare della nazione (che, in questo senso, aveva collezionato in pochi decenni umilianti sconfitte), ma anche una minacciosa fiacchezza morale che ne invalidava alle radici la virilità. Per correre ai ripari, volontari ciclisti, addestrati alle tattiche militari e al tiro a segno, già dal 1906 iniziarono a partecipare alle esercitazioni dei reggimenti e nel 1908 arrivò la legge che istituiva il Corpo nazionale volontari ciclisti e automobilisti (Vca) e a seguire il decreto che ne approvava lo statuto.

Nel periodo intercorso fra la crisi bosniaca e la guerra di Libia a competere con i Vca per ottenere i favori dei giovani sorsero, in via ufficiosa, molte altre organizzazioni di volontari. In quel tempo, le società di tiro a segno avevano iniziato a offrire uno spazio in cui fanciulli sempre più piccoli iniziano a esercitarsi al “culto della santa carabina”. Nel 1909, il ministro Luigi Rava istituiva l’educazione fisica in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Inoltre, l’esercito entrò in ventiquattro dei quarantacinque convitti nazionali del Regno nel marzo 1910. Il variegato mondo dell’associazionismo giovanile borghese offriva la possibilità di svolgere dei grand tour, delle gite nei luoghi più significativi del Risorgimento e nelle terre contese; così facendo, si diffondeva la religione della patria. Si diffuse una sorta di “garibaldinismo di stato” consistente in una appropriazione nazionalisteggiante dell’immaginario garibaldino che si avvalse di una concezione etica della guerra, elaborata anch’essa nel corso delle lotte di liberazione. Le seducenti immagini di eroismo giovanile, il mito di un’audace minoranza che si fa carico della rivoluzione nazionale contro la gerontocrazia politica, l’alto valore morale attribuito alla prova delle armi: furono questi gli elementi intorno ai quali si andò delineando quella ideologia dell’intervento che animò le “radiose giornate” del maggio 1915. Il garibaldinismo strettamente inteso era soltanto un mito usato per suscitare l’adesione emotiva dei giovani; coltivare la tradizione garibaldina significava alimentare un patriottismo al di sopra di tutto e tutti.

Al momento della guerra di Libia, però, ai battaglioni universitari venne affidato soltanto il compito di teatralizzare l’Italia giovane in armi, sfilando lungo le vie cittadine, specialmente nei quartieri popolari, e gareggiando in concorsi ginnici e di tiro. Inoltre, i militi studenti della Sursum corda e degli altri battaglioni erano totalmente soggetti al comando e alla volontà degli adulti. In tutta Europa il nesso tra virilità e nazione, tra identità maschile, esercizio delle armi e cittadinanza sorresse l’”etica della mobilitazione” della generazione del 1914.

Per i giovani italiani cresciuti nei circoli patriottici e nei battaglioni volontari però non si trattò tanto o soltanto di “respirare” quei codici culturali, quanto piuttosto di esperirli quotidianamente. Nei progetti di mobilitazione bellica rientrarono soltanto i Vca e le guide alpine; infatti, i giovani delle altre associazioni studentesche vennero spinti verso la confluenza entro il locale battaglione dei Vca. Nel preparare volontariamente l’olocausto di sé, le giovani generazioni colte fornirono alla propaganda per la guerra una delle sue armi più efficaci: volere la guerra era un atto di fede nella nazione, una prova della maturità morale raggiunta dalle sue energie migliori; l’etica e l’estetica del sacrifico militare poterono più di qualsiasi distinzione partitica. Nel corso della stagione interventista il repertorio della violenza studentesca si ampliò dalle retoriche antistituzionali, dalle fischiate, dagli assalti ai consolati austriaci sino alle offensive contro i giornali e i circoli del movimento operaio, alle aggressioni ai professori tedescofili e agli esponenti politici neutralisti. Le rivendicazioni territoriali, la lotta ai nemici interni e la consapevolezza di classe costituirono gli assi portanti e fra loro correlati della mobilitazione studentesca nell’immediato dopoguerra. Nel novembre 1918, quando ripresero le agitazioni sociali, la questione adriatica rappresentò la nota dominante dell’attivismo giovanile. All’Italia dei politicanti e dei rinunciatari la gioventù studiosa opponeva il suo diritto a dettare i nuovi equilibri interni e internazionali del paese, senza peraltro mascherare il desiderio di pervenire a una risolutiva resa dei conti con gli oppositori politici.

Soldati italiani partono per la trincea 1915

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