Giovani e società di massa – terza parte

scritto da Andrea Soppelsa.

Mario Cattaneo, Dalla serie Juke Box, Milano, 1960

Cultura di massa e società italiana. 1936-1954 è il frutto di un ampio lavoro svolto da due storici britannici, David Forgacs e Stephen Gundle, che si sono avvalsi della oral history per fare emergere una messe di informazioni sul consumo culturale nel periodo compreso fra gli ultimi anni del regime fascista e i primi dell’Italia repubblicana. La data d’inizio è stata posta al 1936 in modo tale da comprendere la creazione del ministero della Cultura popolare (1937); quella finale, invece, è stata individuata nel 1954, anno d’inizio delle trasmissioni televisive Rai. L’obiettivo consiste nell’esaminare i rapporti tra produzione culturale, consumo e potere politico per evidenziare l’eventuale esistenza di continuità tra le attività delle industrie culturali da un lato e il consumo popolare dall’altro, in un arco cronologico frammentato in due epoche separate in termini politici. Inoltre, si voleva anche capire se vi fosse (e in che misura) continuità da parte dello stato e delle associazioni volontarie attive nella società civile nei loro rapporti con la cultura di massa. Per fare questo, gli autori, nel biennio 1991-92, hanno intervistato 117 persone tenendo conto di diverse variabili, senza la pretesa di costruire un campione rappresentativo dal punto di vista sociologico.

Il volume è suddiviso in tre parti: “Consumo culturale e vita quotidiana”, “Industrie culturali e mercati” e “Politiche e cultura di massa”. Innanzitutto, i due storici affermano che la cultura di massa operò sia a livello disintegrativo sia a livello integrativo, limitandone l’efficacia nell’opera di costruzione del consenso politico e operando una spinta sociale non sempre conservatrice. Significa, quindi, contestare o, almeno, rivedere le posizioni assunte, ad esempio, da Emilio Gentile nel suo importante lavoro Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista (Laterza, 1993). Per gli autori del libro, andrebbe trattata con cautela l’affermazione secondo cui il regime fascista plasmò effettivamente la mentalità degli italiani, o quantomeno li strinse in una sorta di transitoria complicità emotiva alimentando una statolatria o, nei suoi raduni di massa, un “rito di comunione”. Quest’ultimo concetto è teorizzato da Mario Isnenghi nel libro L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri (il Mulino, 2004). Nel lavoro sugli stati totalitari o autoritari, ammoniscono gli autori, si deve evitare “la fallacia metodologica” di leggere i presunti effetti di un rituale partendo dalle intenzioni dei suoi organizzatori. La storia culturale sfugge alle periodizzazioni convenzionali: il periodo fra il 1936 e il 1954 presenta continuità più significative dei cambiamenti e può essere letto come parte di un più lungo processo di modernizzazione culturale.

La cultura di massa commerciale e la diffusione delle forme di consumo culturale ad essa associate svolsero un ruolo assai rilevante nella modernizzazione dell’Italia; da una parte, creò mercati, simboli e identificazioni culturali nazionali, dall’altra, allargò la esperienza di consumatori a flussi e circuiti di comunicazione internazionali. Non si può dubitare del fatto che gli anni del miracolo economico (1958-63) siano stati un periodo di trasformazioni particolarmente rapide; tuttavia, l’impressione di una grande trasformazione compressa in un decennio, gli anni Sessanta, è ampiamente illusoria: in verità, i cambiamenti furono lenti. Molte delle testimonianze esaminate da Forgacs e Gundle restituiscono un quadro complesso ed eterogeneo; più individui ricordano alcune esperienze di prodotti culturali di massa molto tempo prima che le comunità in cui vivevano fossero abitualmente e permanentemente esposte ad essi. Per esempio, nel periodo interessato dallo studio, tre tipi di pubblicazione a stampa ebbero un pubblico di massa: la stampa sportiva, le riviste illustrate e i fumetti. Si noti che questo tipo di lettura non richiedeva alti livelli di alfabetizzazione e, a volte, poteva essere consumata anche da analfabeti che si intrattenevano guardando le foto o i disegni. “La Gazzetta dello Sport” era il quotidiano più richiesto dai detenuti (anche politici) e il più diffuso presso le milizie fasciste nella guerra di Spagna.

È, invece, più complesso stabilire con precisione il numero di lettori di libri, poiché essi godono di un ciclo vitale decisamente più longevo di quello di un quotidiano. Il cinema fu la forma più popolare di divertimento commerciale di massa in Italia, con una chiara distinzione tra centro-nord, dove si vendeva la maggior parte dei biglietti, e sud della nazione, e tra centro e periferia. L’ascesa del cinema coincise con il declino del teatro di varietà. La radio si distinse dalle altre forme di intrattenimento del periodo poiché la gente comunemente l’ascoltava mentre era intenta in altre occupazioni. Certamente, vi furono sempre più ascoltatori che abbonati: l’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche) nel 1940 stimava 6 ascoltatori per ogni abbonamento privato. La diffusione della radio in Italia fu assai più contenuta numericamente rispetto ad altri paesi come la Gran Bretagna e la Germania. L’iniziale disinteresse statale unito all’elevato costo dell’apparecchio sono alla base di questo ritardo. Il fascismo, però, seppe sfruttare sin dal principio le potenzialità del mezzo: dal 1925 iniziarono ad essere trasmessi via radio i discorsi di Mussolini che, con questo espediente, nel corso del tempo, implementò la sua aura di ubiquità nella nazione. Il regime cercò di aumentare il numero degli abbonati introducendo nel commercio un modello di radio moderatamente più economico e dotando le strutture pubbliche del partito di apparecchi per l’ascolto comune.

Nel 1939-40 l’EIAR promosse un referendum sui propri programmi radiofonici; sebbene ammantato di paternalismo (si è parlato di un “plebiscito per l’EIAR” più che di un referendum), esso ci offre dei dati interessanti. Per esempio, si conferma l’irregolare distribuzione regionale, con il 73% di risposte che provengono da nord e centro. La radio fece molto per diffondere il gusto per la musica leggera: nel dopoguerra, proliferarono le sale da ballo, frequentate dalle ragazze “più emancipate”. Ballando, così come mangiando o ascoltando, gli individui assimilano i significati dei prodotti culturali che consumano, applicandoli sul proprio corpo o rendendoli visibili attraverso il comportamento.

Nelle sale cinematografiche si consumava uno dei paradossi del privato: in un contesto di rigido controllo sociale, esse rappresentavano uno dei pochissimi luoghi dove i giovani andavano in gruppo o in coppie e, nel buio della sala, potevano avere qualche contatto fisico lontano dallo sguardo dei genitori. Uomini e donne, adulti e giovani, hanno la possibilità di avere una vita privata sottratta al controllo della famiglia o del vicinato solo nello spazio pubblico: si può quindi pensare che essa sia inversamente proporzionale alla quantità di tempo che passavano nello spazio domestico. In questo periodo, tra le altre cose, la crescente visibilità dell’intimità nei cinema e negli altri luoghi pubblici fu notata con allarme dai cattolici, che, fra le varie cose, proponevano di proibire i baci sullo schermo. Forme di desiderio e individualità, che altrimenti sarebbero rimaste latenti, vennero estrinsecate proprio grazie al cinema, che offrì agli spettatori idee sulla moda e sul comportamento; secondo le testimonianze orali, un fattore da non sottovalutare è la tendenza dei genitori a opporre minor diniego verso il cinema rispetto ad altri passatempi come il ballo. Specie negli anni Trenta, ci furono molti tentativi di imitare pettinatura, trucco, portamento e modo di vestire dei divi hollywoodiani, quantunque avessero poco da spartire fisicamente con la gran parte degli italiani. I fascisti si occuparono della educazione fisica degli italiani, ma, al di là della propaganda, a livello locale le attrezzature e i luoghi per lo sport furono molto carenti. Le donne, al pari degli uomini, furono stimolate a svolgere attività fisica; ciò suscitò dibattiti e preoccupazioni. Sussistevano diverse interpretazioni del concetto di decenza per quanto concerne la “nudità” femminile in pubblico. Inoltre, i pantaloni per donne erano ritenuti un’importazione anglosassone da rigettare. Perry Willson ha sollevato la problematicità del rapporto donna-divisa nel fascismo: le camicie nere erano elemento identitario e simbolo della mascolinità guerriera che aveva conquistato al fronte il proprio diritto a determinare il destino nazionale; quindi, non si prestavano a essere indossate da donne. Tuttavia, a partire dagli anni Trenta, con la necessità di accelerare la fascistizzazione, anch’esse ottennero delle divise ufficiali, seppur private degli aspetti più virili e militaristici. L’allentamento della barriera del decoro, comunque, fu in atto già da questi anni; proprio le politiche fasciste ne furono una concausa: le località balneari, i treni popolari, il “sabato fascista”, le colonie marittime innescarono un processo lento, ma inesorabile, di sempre maggiore esposizione del corpo. Le industrie che si occupano della produzione di prodotti di massa per il tempo libero, pur dovendo sempre soggiacere a varie forme di regolazione e intervento statale, impararono ben presto a stimolare la domanda mediante la promozione e la pubblicità.

Gundle e Forgacs ritengono che nella industria culturale italiana, nonostante lo iato consumatosi nel periodo della II guerra mondiale, le strategie commerciali ideate negli anni Trenta proseguirono pressoché immutate negli anni Cinquanta per due ragioni: per prima cosa, perché le imprese culturali tendono ad agire operando con continuità, imponendo un riconoscibile “stile della casa”; secondariamente, per il fatto che l’intervento statale a livello culturale fu frammentario e, sovente, scoordinato. L’editoria rappresentava la più antica delle industrie culturali italiane; nel dopoguerra, si imposero Milano e Torino come le città capitali del mondo editoriale, mentre Firenze conobbe un rapido declino. La modernizzazione venne guidata negli anni ’30 da Mondadori e Rizzoli. Essi lanciarono le riviste di massa: nel 1940 Arnoldo Mondadori pubblicava ben nove periodici, compreso “Tempo”, emulo nostrano della celebre rivista “Life”. Mondadori si assicurò anche la licenza esclusiva dei fumetti di Walt Disney la cui pubblicazione, sebbene la dichiarazione di guerra agli USA, fu interrotta solo nel 1943 per la crisi economica. Mondadori stabilì anche una partnership con “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista che, durante la guerra fredda, fu portatrice di una propaganda anticomunista e filoamericana, con tecniche di persuasione “soft”. Il mercato cinematografico italiano fu sempre dominato da film stranieri. Il regime fascista si rese conto dell’importanza di possedere una forte industria cinematografica nazionale per ottenere prestigio, ma, se promosse la stabilità delle società commerciali, non favorì la loro concentrazione né creò le condizioni per il loro sviluppo industriale. Nel 1937 venne inaugurata Cinecittà, i cui stabilimenti offrivano un salto qualitativo notevole in quanto a possibilità tecniche. Nel 1938 venne introdotta in Italia la legge di monopolio, la quale garantiva all’Ente nazionale italiano di cinematografia (Enic) il controllo sull’importazione di film stranieri. Le principali majors statunitensi si defilarono, boicottando il mercato italiano. Nel dopoguerra l’industria italiana del cinema soffrì il disinteresse statale, il ritorno degli americani e la distruzione del periodo bellico. Dopo molte proteste, nel 1949 venne emanata la “legge Andreotti” con cui il governo garantiva sussidi, il cui ottenimento era, però, subordinato al vaglio della sceneggiatura. Il risultato della legge innescò tre processi: l’espansione industriale, il declino dell’impegno politico e l’americanizzazione. Sorprendente effetto collaterale fu lo sviluppo di produzioni americane girate in esterni o delocalizzate in Italia. L’Italia venne trasformata in un set cinematografico ad uso degli americani, che diffusero il loro know how. Protagonisti italiani di quegli anni furono i produttori Carlo Ponti e Dino de Laurentiis che si trasferirono presto all’estero pur continuando a produrre anche in Italia. Essi furono sentimentalmente legati a Silvana Mangano e Sophia Loren, due dive italiane che in quegli anni assunsero caratura internazionale (la Loren vinse il premio Oscar come migliore attrice e la tv italiana la intervistò nel suo appartamento assieme a Carlo Ponti, il quale era molto più anziano di lei e, soprattutto, già sposato). Almeno a partire dal 1949 è stato dimostrato che la proiezione di alcuni film venne procrastinata o promossa in base al suo contenuto progressista o anticomunista. In sostanza, nella seconda metà degli anni Trenta, le industrie culturali italiane offrivano un’immagine contraddittoria: erano tecnologicamente avanzate, ma operavano in un mercato nazionale di prodotti culturali più ristretto e più povero di quello delle loro controparti che agivano in altri paesi europei. Reddito medio pro capite basso, infrastrutture di comunicazione sottosviluppate, diffuso analfabetismo, scarsa mobilità geografica: per tutte queste ragioni, la cultura era prodotta ma non ancora consumata in massa. La maggioranza dei cinema era concentrata nei centri urbani e la distribuzione dei giornali era disomogenea.

Fu soltanto la forte espansione che si registrò nella vendita di biglietti dei cinema nei primi anni del dopoguerra a convincere i vertici della RAI (così era stata ridenominata l’Eiar nel 1944) ad attivare un servizio televisivo a copertura nazionale. La televisione avrebbe grandemente contribuito a “fare gli italiani”. 

Benito Mussolini in posa con delle giovani (fonte: Istituto Luce)

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