Come potrà il legislatore indirizzare l’uomo al progresso?: Da Ulpiano all’Economic Analysis of law

scritto di Francesco Scarangella.

La città ideale

Come potrà il legislatore indirizzare l’uomo al progresso? Da Ulpiano all’Economic Analysis of law

Che cosa identifica il moderno diritto? Si parta da una definizione generale: il diritto si compone di disposizioni normative. Una disposizione altro non è, che una regola generale ed astratta idonea a disciplinare un numero potenzialmente infinito di situazioni reali differenti nei confronti di tutti i soggetti dell’ordinamento: ossia, la disposizione è un comando generale ed astratto, la cui osservanza, è imposta ai cittadini nelle singole fattispecie concrete.
Ma come può il legislatore orientare gli uomini al progresso, attraverso le proprie leggi?

ULPIANO afferma che il compito della iustitia, il cui nome si fa discendere da quello del diritto (ius a iustitia appelatur), è proprio quello di indirizzare le condotte degli uomini: non solum metu poenarum, verum etiam praemiorum quoque exhortatione
In tal modo sarebbe possibile bonos […] efficere homines. Il che equivale a dire che la pratica del diritto non possa limitarsi a comunicare una boni et aequi notitiam, ma debba provvedere con lo strumento delle sanzioni e degli incentivi ad assicurare l’obbligatorietà della legge: solo in tal modo, secondo il Prefetto al Pretorio, iustitiam namque colimus, evidente com’è che altrimenti la condotta umana non potrebbe patire alcun condizionamento da parte delle leggi, che rimarrebbero imperativi morali puramente astratti ed ipotetici.
È da tali considerazioni di carattere sociologico che il legislatore muove nel disegnare la disciplina normativa, con il fine di assicurare la massimizzazione dei vantaggi e la minimizzazione degli svantaggi prodotti dalle umane condotte: da un lato assicurando che le leggi positive vengano osservate, da altro lato preoccupandosi di dettare disposizioni normative idonee a garantire il buono ed ordinato svolgimento del vivere civile.

Il noto giurista fiorentino Francesco ACCURSIO, nel definire l’ufficio Imperiale nella glossa Conferens Generi, stesa con riferimento alla Lex Quomodo oporteat (e riletta attraverso il richiamo al proemio delle Institutiones, alla Lex Regia de Imperio di età romana classica e alla novella Giustinianea Digna Vox), sottolinea come lo stesso nomen iuris attribuito dalla legge all’ufficio Imperiale, id est quello di Augustus, ne illustri il compito essenziale: infatti, il principe è chiamato Augustus (quia tunc non esset Augustus dictus) ab augendo, il che equivale a dire per la sua capacità di condurre al meglio tutto l’Impero.
Il compito essenziale di ogni governante sarebbe, dunque, augere imperium: è questo, ovviamente, un obbligo di meri mezzi, che deve almeno impegnare lo sforzo istituzionale dei pubblici poteri, senza però la pretesa di un concreto raggiungimento degli scopi perseguiti.

DANTE, nel Convivio, definisce icasticamente l’Imperadore come il cavalcatore de la umana voluntade, affermando che l’ufficio di ogni potere sovrano sia in primo luogo orientato ad indirizzare ope legis ed ope iudicis tutte le condotte degli uomini verso la felicità materiale e terrena, oltreché verso la beatitudine spirituale, in relazione a tutte le condotte che i filosofi scolastici consideravano espressive di volontà.
Il letterato fiorentino osserva infatti che: “E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (…) trovata fu la Ragione scritta e per mostrarla e per comandarla. E però è scritto nel principio del Vecchio Digesto “La ragione scritta è arte di bene e d’equitade”. A questa scrivere, mostrare e comandare è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo Imperadore, sì che quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana volontade”.
Così, a dire del Sommo Poeta, spetterebbe al potere il compito di indirizzare gli uomini al bene, promuovendo lo sviluppo civile ed il progresso sociale: in un primo momento stabilendo in via preventiva principi legislativi che possano disciplinare l’equitade e proibire ogni iniquitade, ponendo tali principi per iscritto e divenendone primo esempio per i propri sudditi; poi, in via eventuale e successiva, esercitando la propria potestas iurisdictionis attraverso il comandare, con l’esercizio dei poteri coercitivi che all’Imperatdore si riconoscono in qualità di pubblico Ufficiale chiamato ad orientare la vita degli uomini.

Il noto giurista medievale BALDO DEGLI UBALDI, voce raffinatissima dello ius commune tardomedievale e massimo teorico della struttura gius-costituzionale dell’Europa imperiale, dottamente richiamando e reinterpretando il pensiero del giurista romano GAIO e quello di SENECA, illustre filosofo stoico, afferma come tutto il diritto naturale non possa che gemmare da una naturalis ratio innata nell’uomo, la quale arbiter est bonorum atque malorum, consentendo al giudice di discernere tra la giustizia e l’ingiustizia.
Nel sistema medievale delle fonti del diritto, come interpretato dalla dottrina costituzionalistica baldiana, vertice dell’intero ordinamento è dunque lo ius naturale, conoscibile da ogni uomo grazie al possesso della ratio: supremo giudice di questo ordinamento – chiamato a vegliare sul rispetto dei principi fondamentali affinché nessun governante possa rendersi tyrannus – altri non è che l’Imperatore romano, il cui compito è quello di controllare la vita giuridica dei Regna fioriti nell’Europa medievale attingendo ai principi generali del diritto di natura, cosicché questi possano coltivare la propria autonomia senza mettere in discussione la sovranità Imperiale e il diritto di natura.

Ricco di riferimenti al ruolo perseguito dal legislatore è del pari il pensiero di HOBBES, filosofo e giurista, protagonista del giusnaturalismo e corifeo dell’assolutismo monarchico. La riflessione hobbesiana, notoriamente venata dall’idea di un incombente bellum omnium contra omnes, ne rinviene l’unico possibile rimedio nel dominio di un Leviatano, a sua volta ipostasi del concetto noto alla dottrina come Stato-Apparato. Hobbes fonda la propria speculazione sull’idea di un Principe e Legislatore assoluto non necessariamente chiamato a perseguire il bene dei sudditi: questi, infatti, genericamente obbligatosi verso i sudditi a mantenere l’ordine pubblico interno (sulla cui nozione giuridica si rinvia alla dominante dottrina costituzionalistica e penalistica), ha per unico vincolo contrattuale ai propri poteri il mantenimento della pace sociale, godendo per il rimanente di uno ius in omnia derivante dal Popolo ma irretrattabilmente attribuito allo Stato.
In tale contesto, ben si comprende come la persecuzione del progresso sociale, comunque lo si voglia intendere, rimanga puramente eventuale ed in ogni caso rimessa alla discrezionalità politico – normativa del Legislatore
Questa antica idea di ius naturae quale istrumento di sereno vivere civile, del resto, era già stata espressa in termini – nella loro buona sostanza – analoghi da EPICURO DI SAMO, nell’affermare che “Il diritto secondo natura è il patto, fondato sull’utilità reciproca, per non fare né ricevere danno” (Epicuro – Massime Capitali 31).

La SCUOLA ECONOMICA del diritto – sorta nella prima metà del Novecento su spinta di una raffinata dottrina venutasi a formare da entrambe le sponde dell’Atlantico e connotata da una sensibilità giuridica estremamente vicina alla nostra contemporanea – concepisce il ruolo del Legislatore come un’opera di costante ponderazione tra incentivi e sanzioni, finalizzata a premiare le condotte avvertite come socialmente commendevoli e, pertanto, utili a raggiungere il progresso.
In questa prospettiva, il compito del Legislatore in altro non consisterebbe, che in quello di favorire il progresso attraverso la minimizzazione dei costi di transazione, con una legislazione efficiente che assicuri il possesso dei mezzi di produzione a chi sia in grado di trarne il massimo profitto economico, a beneficio della comunità tutta oltreché del singolo imprenditore.

In questa accezione di Economic Analysis of Law, il progresso è, dunque, inteso in senso squisitamente microeconomico e non sociale, né tantomeno morale: manca, cioè, una precisa volontà di imporre attraverso la legge la sequela di valori morali, virtù religiose o concezioni etico filosofiche di alcun genere.
Ciò, sull’impronta di una lunga tradizione giuridica che da BECCARIA ai tempi contemporanei aveva accesamente stigmatizzato l’uso della spada legale, ed in particolar modo di quella penale, a fini di propulsione sociale: compito del Legislatore non è più al giorno d’oggi quello di Bonos facere homines, ma soltanto quello di imporre – ancora una volta non solum metu ponarum, sed praemiorum quoque exhoratione – condotte adeguate alle necessità di un ordinato e sereno vivere civile.

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