UN’OPERA ANTROPOCENTRICA.
Testo di Matteo Mulè.
Mi è capitato di recente, dopo aver concluso un esame di letteratura italiana contemporanea, di
imbattermi in un’opera che viene spesso citata e ripresa, ma della quale non ebbi mai modo o
forse tempo di aprirla e di darle una lettura approfondita. Parlo delle Operette morali di Giacomo
Leopardi, uno dei pilastri della cultura italiana, conosciuto, almeno nelle antologie scolastiche,
più come poeta che come prosatore.
È stato grazie a Italo Calvino, il quale ha rilasciato nel
corso di diverse interviste e nella prefazione di alcune sue opere una notevole quantità di
encomi, dove definiva Leopardi uno dei più grandi prosatori italiani. Una volta terminata la
lettura delle Operette Morali, ho avuto la possibilità di comprendere la grandissima influenza di
Leopardi sui romanzi del secondo Novecento, in particolar modo sulla scrittura di figure come
Levi e Calvino, laddove la finzione narrativa svela una realtà tetra e di difficile interpretazione.
L’opera si caratterizza per la sua eterogeneità dei temi trattati e dei diversi stili utilizzati nella
narrazione, anche se a dominare è il genere del dialogo tra due soggetti, al termine dei quali
non vi è quasi mai una conclusione chiara e definitiva, che stabilisca una verità, ma al contrario
una non-conclusione, che crea un’atmosfera di sospensione e di indeterminatezza.
Questa ricerca di una verità che possa portare beneficio agli uomini è già presente all’interno della
prima operetta: La storia del genere umano.
L’uomo viene visto come un essere, a differenza
delle altre creature della Terra, insaziabile dei doni che gli vengono offerti dagli Dei e dallo
stesso pianeta.
La noia è un elemento che lo caratterizza e lo rende avaro di conoscenza, di andare sempre oltre a ciò che viene dato e di superare costantemente i limiti imposti. In questo
modo, già all’interno della prima operetta, Leopardi cerca di offrirci uno spunto di riflessione,
una domanda: da che cosa è dovuta l’infelicità dell’uomo che non sembra colpire le altre
creature? Probabilmente dall’ossessiva ricerca della Verità. La Verità, ovvero il dono (o
punizione) che Giove regala agli uomini per aiutarli a contrastare il tedio e l’infelicità, è vista da
Leopardi come una sorta di maledizione. <<Perocché laddove agli immortali ella dimostrava la
loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo
dinanzi agli occhi la loro infelicità>>.
Avere maggiore consapevolezza della realtà e di noi stessi,
da Leopardi viene visto come un male, perché in questo modo ci renderemo conto della triste
condizione di uomini, incapaci di dominare una realtà in continuo mutamento, destinati a rincorrere dei piaceri caduchi, a confrontarci con una Natura indifferente alle questioni umane,
pronta sempre a colpire con la sua forza. L’autore sembra quasi voler denigrare la funzione
salvifica della conoscenza, definendola una piaga per l’uomo, che lo porta solamente a contatto
con gli aspetti più oscuri e infelici della propria sorte.
Per questo motivo nel Dialogo della Natura
e di un’Anima, quando Natura chiede all’anima se è disposta a reincarnarsi in un umano dotato
di somma conoscenza e di grande abilità (allude probabilmente alla figura del filosofo), che avrà
grandissima gloria tra gli uomini, soprattutto dopo la sua morte, l’anima risponde: << Dunque
alluogami, se tu m’ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste doti che
mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producessi in
alcun tempo>>.
L’aumento di conoscenza, per lo scrittore di Recanati, comporta inevitabilmente
un accrescimento dell’infelicità dell’uomo. Il secolo XIX con le rivoluzioni industriali e con un
aumento dell’importanza del pensiero scientifico e razionale, eredità dell’illuminismo, può aver
portato ad un miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, ma allo stesso tempo lo ha
condannato ad una vita sempre meno attiva e più dedita al pensiero, con conseguente
allontanamento dalla Natura.
Per questo nel Dialogo di Plotino e di Porfirio si invidia la
condizione dei selvaggi, che vivono a stretto contatto con la natura e sono costretti a dedicare la
loro vita esclusivamente alla raccolta del cibo per poter sopravvivere, eliminando l’attività
intellettuale con la quale si può sviluppare questo tedio nei confronti dell’esistenza, che porta lo
stesso Porfirio a pensare al suicidio come una liberazione.
La necessità di vivere una vita breve
e intensa anima diversi dialoghi all’interno dell’opera leopardiana, come ad esempio il Dialogo di
un fisico e di un metafisico. Il fisico, che si può identificare con la figura del medico, sottolinea
come le sue scoperte possano portare ad un allungamento della vita dell’uomo e quindi ad un suo miglioramento, mentre il metafisico, ovvero il filosofo, sostiene, al contrario, che è preferibile vivere una vita breve e intensa, poiché essendo i dispiaceri sempre superiori in numero e
intensità ai piaceri, allora è meglio cercare di ridurli il più possibile. Il metafisico invidia la
condizione degli antichi che solevano morire presto, dato che vivevano una vita più pericolosa,
ma allo stesso ricca di emozioni e di esperienza, che non davano spazio alla noia, tanto temuta da Leopardi.
Le Operette morali si possono definire a tal proposito, riprendendo il titolo, un’opera anti-antropocentrica, perché mettono in discussione la centralità dell’uomo e le sue facoltà cognitive, che lo illudono di poter determinare e dominare una realtà così sfuggevole.
Leopardi, riflettendo sulla condizione dell’intellettuale borghese, sembra anticipare il dominio della tecnica che si
svilupperà nel secondo Novecento, ove gli uomini, allontanandosi sempre di più della natura,
avranno una vita più agiata e longeva, ma allo stesso tempo priva di quelle emozioni intense
che ne arricchiscono l’esistenza, scandita, ormai, dai ritmi della fabbrica e del sistema.
Rileggere oggi l’opera di Leopardi, seppur distante a livello cronologico, può offrirci diversi
spunti di riflessione per rivalutare la nostra condizione esistenziale, con la consapevolezza del
fatto che questo viaggio verso la nostra interiorità, possa portare ad un accrescimento
dell’infelicità, ma allo stesso tempo ci può far aprire gli occhi dinnanzi alla mancanza di senso
che, a volte, avvertiamo.
Note:
1) Giacomo Leopardi, Operette morali, Feltrinelli, Milano, 2021.
2) Si fa riferimento a Primo Levi delle Storie naturali (1966) e del Sistema periodico (1975).
3) Tutta la produzione di Calvino è legata sempre da atmosfere fantastiche che analizzano la
nostra realtà contemporanea, penso, ad esempio, al Visconte dimezzato (1952), Il barone
rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959).
4) Giacomo Leopardi, Operette morali, cit., p. 67.
5) Ivi, p. 91.