COSA STA ACCADENDO IN ISRAELE?

COSA STA ACCADENDO IN ISRAELE?

Contestualizziamo il conflitto.

Di Andrea Soppelsa.

 

Il 7 ottobre 2023 Hamas, organizzazione palestinese affiliata alla Fratellanza musulmana, ha avviato una operazione militare all’interno del territorio israeliano, innescando una nuova spirale di violenza -peraltro, mai sopita- nella Terra Promessa. I mezzi di comunicazione di massa hanno prontamente reagito offrendoci una messe di informazioni sulla barbarie perpetrata dagli uomini di Hamas, sulla asprezza della situazione a Gaza, sullo sconcerto del mondo ebraico internazionale; ciononostante, la narrazione giornalistica appare spesso semplicistica, scevra della complessità politica della questione, immemore del substrato di dolore e odio che si è accumulato nel tempo.

Cerchiamo pertanto di porre rimedio a questo vulnus, tracciando i confini storici della questione israelo-arabo-palestinese senza avere pretese di esaustività e ricercando l’equanimità necessaria quando si tratta di popoli che hanno vissuto pochi decenni fa, nel XX secolo, delle catastrofi umanitarie (Shoah, Nakba) le cui conseguenze si riverberano nel presente.

Quando nasce l’idea di uno stato degli ebrei?

L’idea di un ritorno a Sion (nome biblico per la Palestina) inizia a circolare nel clima di nazionalismo del diciannovesimo secolo, che aveva portato alla nascita di molti stati nazionali europei, come Italia e Germania. Dapprima, il sionismo si orienta verso la ricerca di territori inabitati: per questo, si favorisce l’immigrazione in Argentina. Tuttavia, dopo una serie di drammatici pogrom, operazioni di violenza etnica perpetrare a danno dei quartieri e dei villaggi ebraici (shtetlech) dell’Europa orientale, e di forti pressioni antisemite anche nelle nazioni democratiche europee (esemplare il caso Dreyfuss), negli ultimi decenni del XIX secolo inizia a prevalere, suffragata dal mendace slogan “una terra senza popolo, per un popolo senza terra”, la soluzione del ritorno in Palestina.

Contestualmente, tra il 1882 e il 1929 con le aliyot prende avvio il ritorno nella Terra Santa; ai teorizzatori del ritorno, come Theodor Herzl, sfugge in quel momento la possibilità di un conflitto con la popolazione araba, di cui del resto, fino alla rivolta dei Giovani Turchi e agli anni ’20 del XX secolo, non vi sono avvisaglie. La situazione si complica durante la Prima Guerra Mondiale, quando Inghilterra e Francia, alla ricerca di appoggi, blandiscono al contempo il mondo ebraico e quello arabo, promettendo forme di indipendenza. Di fatto, con la dichiarazione Balfour (1917), che prevedeva la possibilità di costituire un primo focolare nazionale ebraico, e l’accordo segreto Sykes-Picot (1916), che gettava le basi della politica dei mandati, furono le aspirazioni arabe ad essere frustrate. Nel frattempo, nel 1917 i britannici avevano scacciato gli Ottomani dalla Palestina e, con la Conferenza di Sanremo (1920), ne ottengono il mandato. Per tacitare gli animi, gli inglesi offrono alla dinastia hashemita il trono della Transgiordania, emanano un Libro Bianco (uno strumento per regolare le quote di immigrazione ebraica in Palestina) e dànno vita a una commissione per indagare le cause del conflitto.

Nel mondo sionista, che aveva organizzato una forma di parastato nota come Yishuv nella quale iniziava a emergere la figura di David Ben Gurion, erano evidenti due tendenze diverse: quella laica e socialisteggiante raccolta nel partito laburista (Mapai), capeggiata da Ben Gurion e fautrice dei kibbutzim, gli insediamenti agricoli collettivi, e quella religiosa e nazionalista, il cui leader, Jabotinsky, ammirava Mussolini e premeva per annientare il nemico arabo.

Lo stato d’Israele nacque dal sionismo socialista, ma, nel corso del tempo, sono stati gli epigoni di Jabotinsky, organizzatosi nel partito Likud (oggi al potere), ad avere la meglio. Gli anni ’30 furono carichi di tensioni: da una parte, gli inglesi diedero un nuovo giro di vite all’immigrazione, dall’altra la situazione in Europa volgeva al peggio, mentre, nel 1936, il Gran Muftì di Gerusalemme chiamava il popola arabo alla rivolta contro ebrei ed inglesi. È allora che, per la prima volta, con la commissione Peel, si ipotizza una ripartizione dei territori.

L’Yishuv riuscì a siglare con la Germania nazista l’accordo dell’Haavara, che consentiva agli ebrei in fuga dalle persecuzioni di trasferire parte dei loro beni in Palestina; inoltre, si dota anche di un esercito regolare con funzioni difensive, l’Hagannah e di una milizia irregolare, l’Irgun, che opera azioni di terrorismo. L’unione di queste forze sarà fondamentale nel 1948 per respingere l’attacco arabo. Un nuovo Libro Bianco, emanato da Churchill nel 1939, sarà una catastrofe per il mondo ebraico europeo impossibilitato a raggiungere la Terra Santa; la cooperazione con gli inglesi continua (i membri dell’Irgun si arruolano in massa nell’esercito britannico), ma al contempo l’Yishuv si adopera per aggirare clandestinamente il divieto all’emigrazione. Dal 1942 inizierà ad essere nota, anche in Palestina, la tragedia della Shoah; le risposte degli alleati agli appelli vedranno sempre subordinare la questione ebraica alla vittoria su Hitler, mentre l’Yishuv si vedrà pressoché impotente. Anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la scoperta della Shoah da parte dell’opinione pubblica internazionale, continueranno ad esserci forti resistenze inglesi alla nascita di uno stato ebraico. È l’episodio dell’Exodus, la nave che illegalmente trasportava immigrati ebrei in Palestina, a lasciare sgomento l’opinione pubblica: infatti, la violenza con cui i militari inglesi avevano lanciato i gas lacrimogeni per impedire alla nave di proseguire, era stata accostata nella memoria alle recenti esecuzioni nelle camere a gas di Hitler. Al che, con l’avallo inglese, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva con la maggioranza dei 2/3 dei votanti il rapporto ONU del 1947 che richiedeva la spartizione della Palestina in due stati e la fine del mandato britannico. Il giorno seguente, il 14 maggio Ben Gurion brucia i tempi e legge la dichiarazione unilaterale di indipendenza dello Stato d’Israele. La dichiarazione è unilaterale per la volontà di Ben Gurion di non trattare con la controparte araba e di utilizzare lo spiraglio a disposizione per fare nascere lo stato degli ebrei nel breve lasso temporale precedente il disimpegno militare britannico. Per i palestinesi è “al nakba”, la catastrofe: immediatamente si assiste alla reazione della Lega Araba, che comprende iracheni, libanesi, siriani, egiziani, transgiordani.

La Prima Guerra d’indipendenza porterà una vittoria schiacciante degli ebrei e finirà con la tregua del ’49 (armistizio di Rodi), dalla quale Israele uscirà con confini molto più ampi di quelli stabiliti (occupazione dell’intera Galilea, zona costiera fino a Gaza, Negev-con lo sbocco sul mar Rosso-, e Gerusalemme Ovest). La compromissione della situazione palestinese è però dovuta principalmente all’annessione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est da parte di re Hussein di Trangiordania, che si proclama anche sovrano dei palestinesi. Dopo questo primo conflitto, in Cisgiordania si allestiscono i primi campi profughi per chi abbandona la Galilea. La costruzione dello stato ebraico si rivela complessa: per non irritare la componente religiosa si rimanda la stesura di una costituzione (mai avvenuta), bisogna stabilire chi è ebreo con delle Leggi sul ritorno emanate tra il 1950 e il 1952, si organizza la leva militare da cui sono esonerati gli arabi israeliani (grave forma di discriminazione in uno stato che si va realizzando). Anche i confini del nuovo stato sono incerti e gli egiziani impediscono l’accesso al Canale di Suez. Da qui si prepara il nuovo scontro, che è altresì determinato dall’ascesa di Nasser (socialista) in Egitto: alla conferenza dei paesi non allineati di Bandung (1955), Nasser, che ne è uno dei principali animatori, impone la esclusione di Israele, spingendo lo stato ebraico verso il blocco occidentale. Quando Nasser nazionalizza il canale di Suez, scoppia la guerra (1956), in cui Israele appoggia Francia e Inghilterra, cioè le nazioni che hanno perpetrato l’aggressione.

È un errore con conseguenze di lunga durata: da allora, Israele comincia ad essere visto come il puntello delle nazioni ex-coloniali e colonialiste; le sinistre internazionali da quel momento sposeranno convintamente la causa palestinese. La guerra finisce per le minacce congiunte di URSS e USA e con Israele che amplia ancora il suo territorio con la conquista dell’intero Sinai, mentre il tentativo anglo-francese di riprendersi il canale di Suez fallisce.

Israele ottiene anche la libertà di navigazione nel golfo di Aqaba (l’accesso al mar Rosso) e la permanenza di soldati dell’ONU a Sharm El-Sheik e a Gaza (sotto il protettorato egiziano). L’Egitto trasforma la sconfitta militare in una grande vittoria politica e Nasser ottiene la leadership delle nazioni arabe. I continui incidenti di frontiera producono una guerra d’attrito che conduce al conflitto lampo noto come “guerra dei Sei Giorni”, consumatosi tra il 5 e il 10 giugno del 1967. Per prevenire l’intervento dell’URSS alleata dell’Egitto nasseriano, Israele prende l’iniziativa: pertanto si occupa tutto il Sinai e, con la entrata in guerra della Giordania e della Siria, anche la Cisgiordania, le colline del Golan e Gerusalemme Est, ossia quelli che ancora oggi sono i territori occupati (eccetto il Sinai).

La conquista più importante per gli israeliani è chiaramente Gerusalemme Est (la città vecchia) che ha dato una torsione più religiosa alla identità dello stato ebraico, dalla sua fondazione e fino ad allora largamente laico. La questione dei territori occupati ancora oggi tormenta Israele. Per esempio, Moshe Dayan, generale laburista dell’esercito, sosteneva che sarebbe stato più importante mantenere il Sinai, avamposto sul mare e privo di palestinesi, piuttosto che le alture del Golan, irrilevanti strategicamente.

Una risoluzione dell’ONU chiederà il ritiro degli Israeliani; dai nuovi territori vi saranno ulteriori profughi che alimenteranno il risentimento del nazionalismo palestinese. Nel frattempo, nel 1964 era nata l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina, capeggiata dalla leggendaria figura di Yasser Arafat; l’OLP, con le sue azioni di guerriglia in loco e all’estero, contribuirà anche culturalmente alla nascita di una specifica identità palestinese, distinta da quella araba, che si plasma amaramente non solo in Palestina ma anche nei campi profughi presenti nelle nazioni confinanti. Con la morte di Nasser e l’avvento di Sadat, vi sono tentativi di pacificazione che Israele non sembra tenere in considerazione e, dinanzi al crescere delle tensioni, si scatena la guerra dello Yom Kippur, attacco a sorpresa di Egitto e Siria, che coglie impreparato lo stato ebraico (1973).

Nondimeno, anche in questo caso, Israele riuscirà ad avere la meglio al prezzo, però, di una sconfitta politica, giacché risulterà determinante ai fini della vittoria militare il ponte aereo istituito dagli statunitensi. Tutto ciò si intreccia con la crisi petrolifera, che spinge l’ONU per questioni materiali ad equiparare il sionismo al razzismo e alla discriminazione razziale. La dichiarazione sarà ritirata una volta superata la crisi petrolifera, che coincide con l’apertura alla pace da parte di Sadat e agli accordi di Camp David, nel rispetto dei quali Israele cederà il Sinai all’Egitto.

Nel 1977, Begin aveva vinto le elezioni e il suo partito, il Likud, riteneva prioritario il mantenimento della Cisgiordania, essendo un territorio storico del popolo d’Israele, mentre il Sinai interessava soprattutto alla sinistra storicamente avversa all’Egitto. Nello stato israeliano, a causa della massiccia immigrazione di ebrei poco politicizzati dai paesi arabi, la componente religiosa e nazionalista diventa egemonica. Per questa componente, si attua un legame inscindibile tra possesso della terra e completezza della esperienza religiosa; è come se unicamente la presenza ebraica in Eretz Israel permetta la redenzione ed è a questa componente che si deve il perfezionamento di una religione civile israeliana che insiste sulla centralità dell’ebraismo che deve avere a cuore Israele.

Mentre il Primo ministro laburista Moshe Dayan attuava una politica dei “ponti aperti”, una concessione di transito nello Stato di Israele ai palestinesi, che aveva permesso loro di migliorare la propria situazione economica, dal 1981 questa politica viene interrotta dal gabinetto guidato da Menachem Begin.

Il governo Begin facilita l’emigrazione israeliana nei territori occupati, insediamenti che, evidentemente, rappresentano un ostacolo alla pace, mentre si stima che il 68 % della popolazione dell’area di Gaza viva al di sotto della soglia di povertà. Prima della amministrazione Reagan, che segna una discontinuità, anche gli USA non erano favorevoli all’insediamento nei territori occupati. Una politica verso Israele da allora rimasta immutata fino ai tempi più recenti: nel 2004, Bush dichiarò ad Ariel Sharon che sarebbe irrealistico attendersi che l’esito dei negoziati sullo stato definitivo esiti in un pieno e totale ritorno alle linee tracciate nel ’49. Trump, da par suo, trasferisce l’ambasciata USA a Gerusalemme, legittimandone così l’occupazione, e si fa intermediario per la normalizzazione dei rapporti fra Israele e paesi arabi, concretizzatasi negli “Accordi di Abramo” (2020), chiaro segnalo del disinteresse crescente del mondo istituzionale arabo per la condizione palestinese.

Nel 1987 si entrava nel terzo decennio di occupazione, re Husayn di Giordania l’anno precedente aveva dichiarato di non supportare più Arafat, l’Egitto con la guerra tra Iraq e Iran si era riavvicinato alle questioni arabe mettendo da parte la questione palestinese. La rabbia era montante; l’evento che fece scoppiare la prima Intifada fu un banale incidente automobilistico avvenuto a Gaza.

La ribellione spontanea venne a poco a poco organizzata dall’OLP.

Tuttavia, la repressione violenta da parte dell’esercito israeliano crea sdegno anche nella popolazione ebraica e, per la prima volta, sono numerose le richieste d’esonero dal servizio militare; gli israeliani cominciano a pensare che il mantenimento dei territori occupati rappresenta più costi che benefici e, anche per questa ragione, nel 1992 viene eletto il laburista Yitzhak Rabin, il quale, nel proprio programma elettorale, si era impegnato a trovare una soluzione. Nel frattempo, una parte dell’Intifada è controllata da un nuovo movimento di resistenza islamica radicale che si oppone all’OLP: Hamas, che inaugura i primi attentati suicidi. L’OLP, del resto, era un movimento laico che, in quel tornante di tempo, stava per abbandonare la lotta armata.

La Nascita di Hamas.

La nascita di Hamas reca con sé un paradosso: per contrastare l’OLP, Israele aveva consentito all’Arabia Saudita e al Kuwait di istituire scuole religiose nei territori occupati. È proprio in queste scuole religiose che si organizza Hamas, il quale, dopo una ultima aspra lotta contro al-Fatah (ultimo baluardo combattente dell’OLP) avvenuta nel 2006, prenderà il sopravvento nella striscia di Gaza.

Le trattative di pace si svolgono a Oslo nel 1993 per iniziativa di Arafat e Rabin e prevedono in tre mesi il ritiro delle forze armate dalla striscia di Gaza, la creazione di un Consiglio Nazionale Palestinese e una provvisoria istituzione di autogoverno nota come Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, entro il 1997 ulteriori negoziati avrebbero dovuto risolvere le questioni in sospeso (Gerusalemme, il diritto al ritorno dei palestinesi, l’insediamento, la sicurezza). Il processo di pace però si arresta: nel secondo congresso di Oslo, nel ’95, Rabin viene ucciso e, sei mesi dopo, è eletto premier Benjamin Netanyahu.

È nel 2000, dopo la provocatoria passeggiata di Ariel Sharon ad armi spianate presso la moschea di al-Aqsa, che scoppia la seconda Intifada che permette alla leadership israeliana di interrompere il processo di pace e di proseguire con l’insediamento di coloni nei territori occupati. Da allora, sotto la leadership Netanyahu -e con la complice inefficienza del successore di Arafat alla guida dell’ANP, Abu Mazen- le condizioni di vita del popolo palestinese sono peggiorate in misura direttamente proporzionale alla crescita del radicalismo di Hamas, obiettivo dichiarato degli attacchi missilistici israeliani sulla striscia di Gaza, che l’hanno resa “una prigione a cielo aperto”. Dal 2000 al 2021 sono state 7 le operazioni israeliane contro la Striscia di Gaza (l’ultima, nel 2021, denominata Guardiano delle mura), a seguito delle quali si è registrata la morte di decine di migliaia di palestinesi, la distruzione delle già precarie infrastrutture e di migliaia di abitazioni. Nel reportage del 2022 sulla situazione in Palestina stilato da Amnesty International si afferma, senza alcun’ombra di dubbio, che le pratiche di controllo della popolazione palestinese, l’apparato amministrativa, le detenzioni arbitrarie, così come l’occupazione dei territori, riportano direttamente a forme di apartheid sullo stile sudafricano. Il sistema discriminatorio che viola i basilari diritti umani è stato generato mediante strade vietate ai palestinesi, trattamenti differenti fra arabi ed ebrei e la costruzione di muri di separazione. Da gennaio 2021 a maggio 2022, le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 357 palestinesi, di cui 79 minori, a cui si devono aggiungere altri 4 adulti uccisi da civili.

Nello stesso periodo, le vittime israeliane ammontano a 18 persone, di cui 3 minori e 2 soldati.

Nell’agosto 2022, Israele ha lanciato una nuova offensiva missilistica verso Gaza, una delle aree più densamente popolate al mondo con i suoi 2 milioni di abitanti, molti dei quali versano in uno stato di povertà assoluta.

Bibliografia

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Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Roma, Carocci, 2017

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Claudio Vercelli, Israele. Storia dello Stato. Nuova edizione, Firenze, Giuntina, 2023

Lorenzo Cremonesi, Le origini del sionismo e la nascita del Kibbutz (1881-1920), Firenze, Giuntina, 1992

AA. VV. Atlante Geopolitico 2022 (Schede Israele e Palestina), Roma, Treccani, 2022

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