«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato».
C’è tutto Kafka, in questo provocatorio, disarmante, dirompente incipit de “Il processo”, il capolavoro del praghese, uno dei più grandi romanzi di sempre.
Un incipit illuminante, di caravaggesca luce: di una luce, cioè, che apre squarci di oscurità, che rende immediatamente palpabile tutta l’assurdità che può improvvisamente devastare la vita di ciascuno, nel segno di una giustizia paradossale, ingiusta, feroce. Di quella giustizia che avrebbero continuato a raccontare scrittori come Friedrich Dürrenmatt e Leonardo Sciascia. Di quella giustizia che sempre serpeggia nella vita, e che sempre può azzannare. «Non posso né voglio essere altro che letteratura», diceva quell’immenso scrittore dell’esistenza (della colpa d’essere nati, della vita come inevitabile colonia penale). Lui che – in mezzo all’assurdità, all’inferno del vivere – non smetteva mai di lasciarsi sorprendere dalla vita, dall’amore. Come gli accadde con Dora Diamant, nell’estate del 1923, un anno prima che la tubercolosi lo uccidesse, il 3 giugno. Per lei Franz lascia Praga, la famiglia, la solitudine: per seguirla nella Berlino antisemita di quegli anni, quella giovane ebrea che gli era scesa nel cuore. E che incarnava una malìa, un incantesimo. Quello stesso incantesimo che Kafka aveva dipinto in una sua pagina di diario, un paio d’anni prima:
«si può ritenere che la meraviglia della vita sia sempre a disposizione di ognuno in tutta la sua pienezza, anche se essa rimane nascosta, profonda, invisibile, lontana. Tuttavia c’è, e non è né ostile né ribelle. Se la si chiama con la parola giusta, con il suo giusto nome, essa arriva. Questa è l’essenza dell’incantesimo, che non crea, bensì chiama».
Già, la meraviglia della vita: che bisogna chiamare con il giusto nome. Così come la meraviglia dell’amore.
Su Franz Kafka, nel centenario della morte