L’Encomio di Elena: un’analisi giuridica

Di FRANCESCO SCARANGELLA

~ dipinto: Pascucci Francesco (1748/ Post 1803)


Introduzione

 

La donna più bella del mondo, generata da Zeus tramite un uovo, ed un pastore di nobili origini, allontanato dalla Corte secondo le indicazioni di un Oracolo, ma salvato ed allattato da un’orsa per volere degli dei: immagini, queste, che richiamano un paesaggio del De Chirico, più che gli apollinei esametri dell’Iliade.

 

Paride Alessandro – raggiunto da Ermes, Era, Atena ed Afrodite mentre pasceva le proprie greggi sulle cime del Monte Ida – non poteva sapere che dalla propria scelta sarebbe dipesa la nascita dell’Occidente.

Mai ad un uomo qualunque – fors’anche di scarsa levatura intellettuale, umana e morale – era stato affidato il destino del mondo, in quei tempi di dei ed eroi: eppure, fu proprio con la guerra di Troia che l’Occidente per la prima volta si contrappose all’Oriente, dando origine ad una millenaria scissione storica e culturale.

Nondimeno, fu solo ad Elena di Sparta che i Poemi omerici e la Tragedia classica greca (exemplum ut afferam Le Troiane di Euripide) addossarono integralmente la responsabilità di una guerra destinata ad insanguinare per anni tutto l’Egeo.

Così Elena, infatti, si accusava nel testo omerico (Iliade, III, vv. 172-176, che riporto nella traduzione di Vincenzo Monti):

 

Suocero amato, la presenza tua

di timor mi rïempie e di rispetto.

Oh scelta una crudel morte m’avessi,

pria che l’orme del tuo figlio seguire,

il marital mio letto abbandonando

e i fratelli e la cara figlioletta

e le dolci compagne! Al ciel non piacque;

e quindi è il pianto che mi strugge.

 

Fu solamente a partire dal VI sec. a.C. che nacque nel mondo greco un vasto movimento di opinione, finalizzato a rivalutare il ruolo storico della figlia di Zeus e di Leda: i più noti interpreti del quale furono segnatamente Stesicoro, con la Palinodia, Saffo con il suo fr. 16 Voigt e Gorgia con l’Encomio, fino ad un omonimo Encomio di Elena redatto da Isocrate.

 

Nell’encomio di Elena il grande retore di Leontini si propose l’ambizioso obiettivo di giustificare appieno il comportamento della regina di Sparta: e vi riuscì, dando peraltro prova di una indiscutibile vis argomentativa e retorica. E, forse, è stato proprio grazie ed a causa della straordinaria capacità dialettica di Gorgia – capace di ribaltare una millenaria tradizione di pensiero e di assolvere Elena da tutte le sue colpe – che tuttora la parola “Sofista” è sinonimo di “ingannatore”, capace far precipitare tutte le più salde certezze ed i più fermi principi in un distruttivo relativismo morale, avvelenando il corpo sociale e scardinando le travi della res publica. Eppure, era stato lo stesso filosofo magnogreco a rappresentare quale fine esclusivo del proprio argomentare la volontà di illustrare i pericoli della parola: la più pericolosa delle armi impiegate per combattere la Guerra omerica.

 

 

 

 

Analisi giuridica

 

Ma si venga, ora, al fine del presente articolo: quello di analizzare sotto una lente giuridica le affermazioni del grande Sofista, al fine di comprendere se e quanto queste possano essere ritenute credibili e condivisibili al giorno d’oggi.

 

Il retore siceliota procede ad organizzare le difese di Elena elaborando una sestuplice linea argomentativa: costei avrebbe, infatti, abbandonato la Città di Sparta, i figli ed il marito o per decreto incontrastabile del fato, o per ossequio al volere degli dei, o per necessità, o per violenza fisica, o perché persuasa dal λόγος di Paride, oppure perché preda dell’amore.

 

I vari argomenti impiegati da Gorgia saranno seguentemente oggetto di analisi, nell’ordine speso dal grande retore.

 

 

Per volere fato

 

È, anzitutto, di pronta intelligenza come il concetto di Fato (la prima delle variabili prese in considerazione dal grande Oratore) non possa trovare albergo nell’attuale ordinamento giuridico: il Fato non è, infatti, preso in considerazione dal legislatore, in quanto del tutto imperscrutabile ed inconoscibile all’uomo, il quale non potrebbe, certo, disporre in sede processuale di strumenti euristici idonei ad indagarlo.

La legge attribuisce, pertanto, a ciascuna persona capace di intendere e di volere la responsabilità del proprio fatto, dimostrando una prospettiva marcatamente meccanicistica, ateleologica e disinteressata ad ogni prospettiva escatologica.

A tal proposito è l’art. 40 c.p. ad evidenziare che la responsabilità penale scaturisce dall’azione o dall’omissione umana, purché queste riescano effettivamente ad integrare il fatto preveduto come reato dalla legge penale incriminatrice per effetto di un dimostrabile nesso di causalità: è, dunque, la sola condotta umana, commissiva od omissiva, a poter giustificare o escludere la sussistenza di un fatto illecito.

 

 

Per decisione della divinità

 

Il volere della divinità è stato spesso fatto oggetto in epoche passate di cognizione in sede processuale: era infatti frequente nelle società arcaiche il ricorso all’ordalia quale prova dell’innocenza dell’imputato.

Per ordalia intendiamo un mezzo di prova attraverso il quale il prevenuto veniva invitato a dimostrare la propria innocenza tramite un procedimento miracoloso atto ad evidenziare l’avvenuto intervento della divinità in proprio favore: il verificarsi di un miracolo avrebbe, infatti, dovuto suggerire l’estraneità del prevenuto ai fatti contestatigli, o in alternativa la sua impunibilità in ragione del favore accordatogli dalla divinità.

Tra le prime tracce letterarie di siffatto schema di pensiero possono essere individuati il rogo di Creso (condannato a morte da Ciro, ma miracolosamente soccorso con una pioggia provvidenziale da Apollo) o il processo contro la Vestale Tuccia (soccorsa da Vesta, che le avrebbe miracolosamente permesso di trasportare dell’acqua in un setaccio senza disperderne nemmeno una goccia).

Il ricorso all’ordalia, tipico soprattutto del diritto delle popolazioni germaniche, si diffuse largamente in tutta l’Europa romano-barbarica a partire dalla caduta di Roma, permanendo in essere anche nell’esperienza giuridica medievale e moderna.

Oggi, tuttavia, il ricorso alla volontà divina quale prova di innocenza non è più, a ben vedere, sostenibile: così si evince, in particolare, dall’art. 189 c.p.p., che nel disciplinare la prova atipica impone che “essa risult[i] idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudic[hi] la libertà morale della persona”.

 

 

Per decreto della necessità

 

In terzo luogo il retore di Lentini affronta il tema della necessità: Elena sarebbe, infatti, stata condotta al tradimento coniugale di Menelao Ἀνάγκης ψηφίσμασιν.

L’odierna nozione di necessità è, tuttavia, molto lontana dalla Ἀνάγκη greca: l’art. 54 c.p. stabilisce infatti perentoriamente che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. 

Al contrario, il concetto antico di necessità appare venato di sfumature etiche, morali, filosofiche e trascendenti che il moderno Legislatore non prende concretamente in considerazione.

Né si può, a rigore, affermare che Elena effettivamente versasse in istato di necessità, sulla base dello svolgimento delle vicende rappresentatoci dagli autori antichi: onde si evince, anzi, una – almeno parziale – facoltatività delle condotte della regina di Sparta.

 

 

Per violenza fisica

 

L’art 46 c.p., relativo al costringimento fisico, statuisce solennemente che: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza”.

Letto sotto il prisma della violenza fisica, l’argomento speso da Gorgia si rivela convenientemente credibile, oltre che dotato di una indiscutibile concretezza: molte sono, infatti, le versioni antiche che evidenziano come quello di Elena fosse stato un rapimento non consensuale, perpetrato da Paride a prescindere dalla volontà della regina di Sparta con il favore di Afrodite.

 

Da questo punto di vista, la figlia di Zeus e di Leda risulterebbe non solo del tutto incolpevole dei fatti contestatile, ma dovrebbe anche essere considerata vittima del delitto di cui all’art. 605 c.p.

 

La colpevolizzazione di Elena conseguente al suo rapimento ben si sposano, del resto, con le concezioni sociologiche del tempo, sovente tendenti alla vittimizzazione secondaria: nell’immaginifica narrazione di Tito Livio analoga manifestazione del fenomeno si ravvisa nella vicenda di Lucrezia, caduta suicida per lavare l’onta della violenza carnale commessa ai suoi danni da Sesto Tarquinio.

 

 

Per il λόγος

 

Il quinto argomento speso da Gorgia è relativo all’impiego, da parte di Paride, del λόγος, che lo stesso retore individua quale il più potente dei re: munito di un corpo piccolissimo, ma capace di imporre alle sue vittime le più grandi imprese.

Tale argomento non è, tuttavia, condivisibile da un punto di vista giuridico: ai sensi dell’art. 110 c.p., si deve, infatti, osservare come la persuasione morale dia luogo ad una fattispecie di concorso di persone nel reato. Colui il quale cada, dunque, sotto i colpi della più potente delle armi, la quale è il λόγος, non potrà certo servirsene per invocare la propria innocenza: a ben vedere, il solo caso nel quale l’istigazione orale a delinquere non determini alcuna responsabilità penale a carico del soggetto attivo del reato si può concretamente individuare nella fattispecie di determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile, di cui all’art. 111 c.p., laddove il determinato a delinquere sia incapace di comprendere la portata criminosa delle condotte oggetto di istigazione

 

 

A causa di ἔρως

 

Non si può accogliere, neppure, il più noto degli argomenti spesi da Gorgia nella difesa di Elena di Sparta: cioè, l’amore.

A mente dell’art. 90 c.p.,“Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”: né potrebbe essere diversamente, posto che la ratio della disposizione è segnatamente quella di responsabilizzare il cittadino, inducendolo a contenere gli effetti criminosi delle proprie passioni individuali.

Dalla prospettiva – piuttosto autoritaria, invero – fatta propria dal Legislatore, ciascuna persona imputabile è chiamata a dominare il proprio mondo emotivo interiore: istinti reconditi, emozioni insopprimibili e passioni travolgenti non rilevano, dunque, di fronte alla Giustizia.

 

Solo quando i deliri emozionali siano causati e giustificati da condizioni psichiche patologiche, sarà accordato il più mite regime di cui all’art. 85 c.p: exemplum ut afferam, ad avviso di una recente, quanto discussa, giurisprudenza di merito il delitto commesso nell’impeto di un “delirio” permetterà di accordare al prevenuto l’inimputabilità (Corte di Assise di Brescia, Sez. I Penale, 21 dicembre 2020).

Non così, invece, invece, per gli stati emotivi e passionali puri e semplici: fattispecie nella quale ricade, plausibilmente, il caso della Tindaride.

 

 


Conclusioni dello scrivente

 

Riconosciuto e condiviso il carattere giocoso e meramente intellettuale della riflessione di Gorgia – il quale per primo, non volendo che dimostrare la forza della Parola, rappresenta fin da subito il proposito squisitamente speculativo del proprio scritto – resta egualmente da evidenziare come questo Encomio ci abbia consentito, nel suo articolato svolgersi, di affrontare molti temi “scottanti” del diritto penale, confermando l’indiscutibile attualità del pensiero di uno dei più celebri Sofisti.

Per noi, dunque, insieme a Gorgia la regina di Sparta resterà pur sempre da assolvere: non prima, però, di averci fornito molti preziosi ammaestramenti in tema di diritto e giustizia.

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