La macchina si è fermata a Eboli
Titolo allegorico per discutere la tematica del non-progresso e di quella “questione meridionale” che in fondo non è mai stata risolta o analizzata nella maniera più concreta. Carlo Levi, nel suo celebre romanzo Cristo si è fermato a Eboli, ci presenta una società, ma forse è meglio dire un mondo al di fuori del mondo stesso. Scritto tra il 1935 e il 1936, anno in cui lo scrittore ricevette il confino, il romanzo si presenta come un diario, ricco di annotazioni, di pensieri rapidi e schietti che poi sono stati riordinati qualche anno successivo e trasformati in un’opera artistica. La Lucania, quella che oggi viene chiamata Basilicata, è un mondo primitivo, semplice e violento allo stesso tempo, nel quale l’umanità è in grado, tra queste montagne rocciose e aride, di ritagliarsi un piccolo angolo per la sopravvivenza. Eboli è il paese campano dove si ferma la ferrovia, ma non solo: si ferma l’Italia. L’Italia del primo dopoguerra, che sta conoscendo un grande sviluppo industriale, sta cambiando il proprio sistema di produzione attraverso la meccanizzazione e si sta evolvendo da società agricola a industriale, conformandosi alle grandi potenze europee. Una nazione che pian piano diventa, anche se per poco tempo, una potenza coloniale, attraverso le conquiste coloniale della Libia e del Corno d’Africa. Milano, Torino e Genova sono i grandi promotori di questo progresso industriale, il quale trova la sua massima espressione nel movimento artistico e culturale del Futurismo, responsabile, quest’ultimo, della diffusione e della promulgazione di quell’ottimismo nei confronti di tutto ciò che è nuovo e si allontana dall’immobilismo della secolare tradizione italiana. Macchine, treni, aerei dipingono l’Italia degli anni ’30, ma tutto questo si ferma a Eboli, perché da lì in poi inizia un altro mondo, un’altra civiltà non collegata a quella presentata fino ad ora.
Superata Eboli l’autore si trova a dover affrontare l’ignoto, la mancanza di infrastrutture e dello Stato stesso. Arriva a Garrano grazie alla macchina di un civile, dove vi rimarrà per un paio di mesi, per proseguire con dei cavalli e verso la fine a piedi, fino a quando non si raggiunge tra le montagne di argilla il paese di Agliano (Gagliano nel romanzo, probabilmente cosi la chiamavano i locali). Lo stesso autore in una prefazione al suo romanzo scriverà: “Certo, l’esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l’alterità presente, la infinita contemporaneità, l’esistenza come coesistenza, l’individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite […].
Gagliano viene descritto come un paese antico, di una civiltà agli arbori della sua vita. C’è un sindaco, il quale dovrebbe rappresentare lo Stato, ma anche lui conosce poco del mondo al di fuori della Lucania. Si trova a svolgere questo incarico perché è una delle poche persone del “villaggio” (a volte l’autore usa questa espressione per marcare la ruralità del posto) che è in grado di leggere e scrivere, perché ha avuto la possibilità di frequentare il ginnasio a Materia, difatti conosce anche il latino. Ma queste conoscenze hanno poca rilevanza a Gagliano. Il resto dei cittadini sono agricoltori e allevatori di capre, combattono ogni singolo giorno per sopravvivere. Non vi è un’economia vera e propria, ognuno produce quello che consuma e al massimo ci sono delle forme di baratto per ottenere dei beni che non si possiede. A Gagliano oltre alle case dei contadini ci sono due barbieri, il municipio, la stazione di polizia (formata da due brigadieri), la chiesa e un cimitero in cima ad una collina fuori del paese. Un paese bianco, una città fantasma che si anima ogni tanto per qualche rappresentazione teatrale, relativa sempre alla crudeltà della vita dei campi. Non ci sono ospedali, né mezzi di trasporto, ma esiste ancora la magia, esercitata da degli sciamani tipici delle tribù d’oltreoceano, che con i loro unguenti sono in gradi di “curare” i malanni dei contadini.
Un’altra componente che segnala da Carlo Levi è la morte, sempre presente e che accompagna la vita di tutti i giorni. I ragazzi se superano i primi anni di età è già un miracolo, per non parlare dell’alta diffusione della malaria, una malattia esotica, quasi scomparsa nel resto d’Italia, ma qui, a Gagliano, nella terra primitiva, ancora un nemico insormontabile. La presenza costante della morte permea i caratteri dei contadini, che li rende duri come la stessa terra che coltivano, togliendo pure la capacità del pianto dinnanzi alla morte dei loro cari, lasciando solamente un canto malinconico, senza speranza, di qualche donna per le strade della città. La città stessa di notte è spettrale, soprattutto quando incombono le piogge autunnali e primaverili, in grado di sciogliere quell’argilla che su cui sorge la stessa Gagliano, facendo sparire parti di città come se nulla fosse.
Le possibilità di fuga da questa povertà sono poche, ristrette ai figli di qualche antico nobile rimasto tra le campagne oppure a chi è disposto a rischiare la vita in un pericolosissimo viaggio oltreoceano verso le Americhe o ad arruolarsi per l’esercito italiano in Libia.
Ci sono anche i briganti, che a differenza di quelli del Gattopardo, non combattono contro lo Stato perché fondamentalmente non c’è, ma si limitano a piccoli furti e a qualche forma di eroismo isolato, che nessuno ricorderà.
I contadini non riconoscono l’autorità dello Stato. Questa tematica verrà sempre più messa in mostra alla fine del romanzo, in cui i contadini, opponendosi alla decisione sbagliate del sindaco, che allontanerà l’unico medico presente in paese, ovvero lo stesso Carlo Levi, organizzeranno una vera e propria protesta, affermando che lo Stato non serve, che loro si possono amministrare da soli, gettando così le basi di quelle che saranno le organizzazioni criminali del sud Italia.
Questa è Gagliano, questa è la Lucania rurale, presentata come un mondo immobile all’interno di un mondo che va avanti.
scritto da Matteo Mulè.
Bibliografia:
Alberto Casadei, Marco Santagata, Manuale di letteratura italiana contemporanea, Laterza, Roma 2007.
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi Editore, Torino, 1975.