Benvenuti su Polis Futura: Il futuro della Politica e della Società
Polis Futura nasce con l’obiettivo di essere un punto di riferimento per chi desidera riflettere, discutere e immaginare il futuro della politica e della società. Viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti: le sfide globali, dall’emergenza climatica alle disuguaglianze sociali, richiedono nuove idee, visioni coraggiose e soluzioni innovative. È in questo contesto che Polis Futura si inserisce, offrendo uno spazio di confronto per chi crede che il futuro non sia solo da subire, ma da costruire attivamente.
La visione di Polis Futura
Il blog di Polis Futura vuole essere una piattaforma che mette in connessione voci diverse, promuovendo il dialogo tra cittadini, esperti e attivisti che condividono l’idea di una società più giusta, sostenibile e inclusiva. Crediamo che il futuro della politica debba essere partecipativo, trasparente e fondato su principi di equità, innovazione e rispetto per l’ambiente.
Tematiche Chiave
Le sfide che ci attendono sono complesse, ma anche piene di opportunità. Tra le principali aree di discussione del blog troverete:
Transizione Ecologica: Il futuro non può prescindere da un ripensamento radicale dei nostri modelli economici e sociali in ottica sostenibile. Parleremo di energie rinnovabili, economia circolare e nuove politiche ambientali per contrastare il cambiamento climatico.
Innovazione e Digitalizzazione: La rivoluzione digitale sta trasformando ogni aspetto della nostra vita, dalla politica al lavoro, dalla cultura all’istruzione. Su Polis Futura esploreremo le potenzialità della tecnologia per creare una società più efficiente e inclusiva.
Partecipazione e Democrazia: Come possono i cittadini avere un ruolo più attivo nelle decisioni che li riguardano? Il blog analizzerà nuove forme di partecipazione politica, dalle piattaforme digitali ai movimenti sociali, per riscoprire una democrazia più viva e rappresentativa.
Diritti e Inclusione: In un mondo sempre più globale, è essenziale garantire che nessuno venga lasciato indietro. Tratteremo temi legati ai diritti umani, alle pari opportunità e alle politiche per ridurre le disuguaglianze, immaginando una società più equa.
Una comunità per il Cambiamento
Polis Futura non è solo un luogo di lettura, ma una comunità che vuole attivarsi per il cambiamento. Attraverso commenti, discussioni e contributi, tutti sono invitati a partecipare attivamente, condividendo esperienze e idee per plasmare un futuro migliore. Vogliamo essere un ponte tra la riflessione e l’azione, offrendo non solo analisi, ma anche strumenti concreti per l’impegno civico.
Perché Seguire Polis Futura?
In un’epoca caratterizzata da disinformazione e superficialità, Polis Futura si propone come uno spazio di approfondimento critico. Gli articoli sono curati da esperti, giovani attivisti e intellettuali provenienti da settori diversi, che portano prospettive uniche su tematiche complesse. Ogni contributo è pensato per stimolare la riflessione e fornire una visione alternativa rispetto ai discorsi dominanti.
Un futuro da immaginare, insieme
Polis Futura è un invito a pensare in grande, a guardare oltre i limiti del presente per immaginare un domani più giusto e sostenibile. Insieme, possiamo costruire una politica che sia davvero al servizio delle persone e del pianeta.
Seguiteci, partecipate alle discussioni, e diventate parte della comunità di Polis Futura. Il futuro della politica è nelle mani di chi ha il coraggio di sognarlo.
14 risposte a “Blog”
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Ciao a tutt*, condivido una breve riflessione sul rapporto populismo-democrazia basata su una conferenza dello storico Marc Lazare alla quale ho recentemente assistito.
POPULISMO E DEMOCRAZIA
Populismo è un vocabolo che nell’ultimo decennio ha goduto di grande popolarità tra giornalisti e politologi; esso indica -spesso con valenza negativa- quelle forze o movimenti politici che si presentano come antistituzionali. L’abuso mediatico del concetto di populismo, che ha prodotto -per esempio- la sua cancellatura in àmbito storiografico- è rintracciabile nella grande flessibilità del termine, che aderisce indistintamente (e questa è una significativa novità) tanto a movimenti che si collocano a destra nello schieramento politico, quanto a sinistra; questa tendenza è favorita dalla ritrosia dei populisti verso la teoria, poiché essa tende a offrire delle solide basi di cultura politica, che indirizzano il partito verso un programma -più o meno definito- da attuare. La trasversalità del populismo non cancella però le differenze ontologiche tra gli schieramenti: studi recenti sul caso francese, ove negli ultimi mesi si sono contrapposti un forte e ben radicato populismo di destra (il Rassemblement National di Marine Le Pen) e un più recente populismo radicale di sinistra (la France Insoumise di Jan-Luc Melenchon) dimostrano che i votanti dei due schieramenti condividono una forte sfiducia in senso verticale, verso l’élite (da leggersi: classe dirigente), ma differiscono nei rapporti orizzontali. Si riconferma, quindi, anche all’interno dei movimenti populisti quella che Norberto Bobbio, nell’opera “Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica”(1994, Donzelli), constatava essere ancora (al termine del XX secolo e dopo il fallimento del comunismo sovietico) il criterio d’individuazione più frequentemente adottato per distinguere gli schieramenti, ossia il diverso atteggiamento di fronte all’ideale dell’uguaglianza. Una distinzione riconducibile all’atteggiamento di coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto uguali che disuguali, danno maggior importanza per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende disuguali. Gli elettori della France Insoumise ripongono fiducia nel vicinato e, allo stesso tempo, anche nei confronti dei francesi delle altre città e degli stranieri che si trovano in Francia; è su questo punto che divergono le politiche dei populisti Melenchon e Le Pen, la quale, a livello di programmi economici, è contraria alla privatizzazione dei servizi pubblici e della sicurezza sociale, una tipologia di politica economica un tempo appannaggio della sinistra. Il populismo non è, però, una invenzione recente: rispetto al passato (si pensi al Fronte dell’Uomo qualunque di Giannini, che nel dopoguerra, per breve tempo, riuscì a raccogliere una cospicua quantità di voti di ex fascisti e anticomunisti), quando forme di populismo divampavano e si spegnevano nel breve volgere di una stagione, la novità è la lunga durata di questo fenomeno politico, che sembra destinata a non interrompersi ancora. Esso ha vissuto una prima stagione in cui si è presentato nella vasta moltitudine di vocaboli etimologicamente affini; i leader populisti sono stati popolari, ovverosia emanazione del popolo (a volte reale, più spesso inventata come nei casi Renzi e Macron, presentatisi come novità quando avevano alle spalle già una lunga storia nelle istituzioni); popolana, nella misura in cui il capo si affanna a mostrarsi come “uno qualunque” (Matteo Salvini, da buon italiano, ama mostrarsi mentre mangia); infine, volgare -cioè del volgo- nei comportamenti e negli usi linguistici (i Vaffaday di Beppe Grillo). Una seconda fase incipiente sembra far volgere verso l’acculturazione istituzionale (democratica?) alcuni movimenti populisti, specie di destra, interessanti a creare le competenze necessarie a reggere nella prassi la pratica di governo; in ciò, la rapida caduta del governo Conte I (M5S-Lega) deve aver rappresentato una buona lezione. Diversamente dal passato, e questo potrebbe risultare uno degli elementi che ne costituiscono l’insolita longevità, il populismo del XX secolo ha perduto la vis antidemocratica: esso è novatore e antiestablishment nella misura in cui pretende di incarnare la vera democrazia e di farlo in nome e per il popolo. Per questo, Ilvo Diamanti e Marc Lazare hanno coniato il neologismo “popolocrazia” (Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie, Laterza, 2018), per definire il governo del popolo, inteso come comunità territoriale e identitaria chiusa e autosufficiente, nuova forma -o evoluzione- della democrazia rappresentativa, che, allo stato attuale (gestita da élites), non tutelerebbe più gli interessi del popolo. Spiega Ilvo Diamanti su La Repubblica del 20 marzo 2017: “La democrazia, in Europa: si sta trasformando in “popolocrazia”. Perché il “demos”, il principio della cittadinanza, titolare di diritti e doveri, tende a venire ri-definito in “popolo”. Comunità indistinta, unita dai confini e dai nemici. I nuovi “populisti”, emersi nell’ultima fase della nostra storia, condividono, infatti, l’avversione verso i “capi”, le burocrazie”. La legittimazione popolare, pretesa dai movimenti populisti, fa leva sulla ignoranza del cittadino medio, che non conosce i meccanismi istituzionali (si direbbe, sovente, non sa di preciso chi e cosa vota) ed è pertanto suscettibile a recepire i fallaci discorsi dei populisti, che ottengono buon seguito delegittimando figure che, anche se lo volessero, non potrebbero essere elette direttamente dal popolo, come il presidente del consiglio dei ministri e il capo dello stato nel caso della Repubblica parlamentare italiana. Ecco allora che, quando una di queste cariche agisce inopportunamente secondo i populisti, lo si attacca dicendo:” Tu non sei stato eletto”; di conseguenza, si trasmette il messaggio che al potere si trova una sorta di usurpatore, non legittimato dalla sovranità popolare a fare quello che fa. Altro elemento nuovo e assai importante nei discorsi politici è la sovranità: probabilmente a causa delle politiche neoliberali, che hanno svuotato – de facto, non de iure- i parlamenti delle loro competenze, delle discussioni, privilegiando una pratica di governo manageriale (leggasi legiferare per decreto, in un incessante stato di crisi, vuoi economica, sanitaria, migratoria et c.), ma anche per la forma istituzionale data alla Unione Europea, percepita popolarmente come tiranno governato da burocrati non eletti (!) che sottraggono la sovranità alle nazioni che ne fanno parte, i termini populismo e sovranità hanno stretto un rapporto proficuo in termini elettorali. Tutti i principali partiti che hanno frequentato la politica del populismo in Italia (M5S, Lega, Fratelli d’Italia) hanno duramente contestato l’Europa, alcuni dicendosi apertamente euroscettici o persino prefigurando la possibilità di un ritorno alla moneta nazionale, salvo poi, una volta giunti al potere, ammorbidire le proprie posizioni, per esempio assestandosi sul vecchio adagio gollista della Europa delle nazioni (FdI). Eclatante il caso di Syriza, il partito populista di sinistra capeggiato da Alexis Tsipras, che nel 2015 chiese al popolo greco con un referendum se accettare o meno le proposte dei creditori dell’UE: sebbene, la contrarietà popolare, Tsipras si vide ugualmente costretto a scendere a patti con l’UE e ad inaugurare una politica di austerità. La crisi dei prestiti subprime del 2008 ha prodotto le condizioni ideali perché, nei paesi dell’UE più in difficoltà, fiorissero movimenti politici situazionali che proponevano soluzioni semplici ai complessi problemi. Da qui, dalla pratica di interloquire con il popolo sfoggiando un linguaggio e dei concetti semplici, spesso alla stregua di slogan pubblicitari, ha avuto inizio il cammino di partiti populisti di sinistra come Unìdas Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, e “né di destra né di sinistra” come il Movimento 5 Stelle in Italia. Tutti questi populismi di sinistra hanno perso la propria carica eversiva trovandosi nella situazione di gestire la cosa pubblica; tutti hanno subìto scissioni e contestazioni interne. Il Movimento 5 Stelle ha visto andare in crisi la propria pretesa alterità rispetto ai partiti tradizionali, già a partire dalla poca trasparenza delle votazioni online (democrazia digitale) che dovevano essere uno strumento nuovo per far sì che tutti gli iscritti contassero egualmente a livello decisionale (sintomo anch’esso dell’avversione per il verticismo). Infine, da partito populista, quindi camaleontico perché non legato a padri o teorie ben definite, si è collocato nell’alveo della sinistra (mantenendo -diremmo, unico retaggio del passato- il veto sull’uso di quel vocabolo per descrivere le proprie posizioni). Se il populismo di sinistra ha nel filosofo argentino Ernesto Laclau una delle figure che più di altri ha cercato di offrire una solida base teorica a questa corrente politica, il populismo di destra si appoggia a chi più di tutti in Europa con la propria pratica di governo sembra l’esempio da seguire: Viktor Orbán, politico ungherese, Primo ministro dell’Ungheria dal 2010, carica che ha anche ricoperto precedentemente tra il 1998 e il 2002. Egli, nel corso del tempo, ha plasmato uno stato autoritario, nel quale si è progressivamente assistito a un regresso dei diritti (pluralismo, libertà individuali e collettive); tutto ciò, nondimeno facendo attenzione a mantenere la forma di stato democratico, utilizzando la sussistenza della pratica elettorale come patente di democraticità. Nel caso ungherese si parla pertanto di democrazia illiberale, poiché non è possibile ancora definirlo dittatura o stato totalitario.
Rimane, infine, insoluta la questione spesso agitata da coloro che si oppongono alla politica del populismo, ossia se questo possa costituire un male mortale per la democrazia; certamente si tratta di un prodotto della democrazia, più precisamente della discrasia tra il rappresentante e i rappresentati, cioè tra le risposte date da chi è eletto per governare e i reali bisogni degli elettori, che produce un vuoto di rappresentanza occupato (anche) dai populisti. Già al più rappresentativo statista dell’Atene classe, Pericle, era chiaro che l’agone democratico conteneva le condizioni di possibilità affinché esso degenerasse, permettendo l’accesso al potere a cuoiai, fabbricanti di lampade e guerrafondai; nondimeno, egli non si sottrasse mai alla competizione imposta dalle leggi della sua città, che, immediatamente dopo la democrazia radicale periclea, conobbe, per l’appunto, la democrazia dei bottegai (del resto, la democrazia è il governo delle masse, mentre l’aristocrazia rappresenta -letteralmente- il governo dei migliori). La risposta che oggi non è possibile dare sarà rintracciabile come prodotto delle contingenze storiche presenti e future e della reazione che le istituzioni e le leggi dei singoli stati sapranno offrire dinanzi a questa lunga onda populista. -
IL COSTITUZIONALISMO QUALE RIMEDIO AL POPULISMO LEGISLATIVO, SPIEGATO CON UNA FETTA DI TORTA
Si assuma l’esempio seguente: tre bambini dispongono di una torta ed il primo propone agli altri di dividere il tutto in tre parti uguali, affinché tutti i ragazzi possano goderne in modo identico. Gli altri due si accordano, invece, al fine di disconoscere la sua fetta del dolce, riservandosi tutta la torta e dividendone l’intero in due sole parti. Due voti sono più di uno: per questo si esige di dividere la torta in due parti eguali soltanto, lasciando insoddisfatta controparte.
ln un regime costituzionale solido, la maggioranza, per quanto schiacciante, non potrà mai privare la minoranza sconfitta della sua “fetta di torta”. La macchina, a volte mostruosa, della “volontà generale” sarebbe, per citare ROUSSEAU, padre della democrazia diretta moderna, capace di schiacciare ogni opposizione e di imporsi su tutto il popolo con la sua forza: ma intervengono dei freni poderosi, che con la loro morsa potente la arrestano. Nessuno, dunque, potrà mai essere privato senza il suo consenso della sua “fetta di torta”: ciò, in quanto esistono degli specifici valori costituzionali che riconoscono e garantiscono la posizione giuridica di ogni soggetto di diritto del nostro ordinamento.
Questi limiti sono rappresentati dalla presenza di una costituzione rigida e, in quanto tale, refrattaria ad ogni riforma normativa che neghi i diritti fondamentali dell’individuo e delle formazioni sociali ove la sua personalità si svolge. La vita democratica dello stato deve riconoscere i diritti di ogni soggetto che al suo interno si collochi: uno stato in cui chiunque può essere privato di quella fondamentale “fetta di torta” non potrebbe infatti essere definito veramente democratico.
La stessa complessa maggioranza parlamentare e popolare necessaria alla riforma costituzionale non può alterare i diritti spettanti anche ad un solo, singolo individuo, come ritenuto dalla Corte costituzionale con sent. 1146/1988: i principi costituzionali fondamentali e i diritti inviolabili della persona umana, oltre a restare indisponibili al legislatore ordinario, non patiscono neppure la riforma costituzionale. I diritti umani, secondo la prospettiva di cui all’art. 2 della Costituzione repubblicana, essendo innati nell’uomo e sono dotati di un carattere pregiuridico e prepositivo, collocandosi prima della Società, della Costituzione e dello Stato, che si limitano a riconoscerli e garantirli, senza poterli rimuovere né alterare. E proprio per questo, il Nostro ordinamento costituzionale è nel suo complesso fondato sul diritto di ognuno a mangiare quella sua indispensabile “fetta di torta”.
Eppure, non di rado il legislatore, di tanto immemore e forte della propria legittimazione popolare diffusa, potrebbe spingersi ad esprimere norme di legge che di tali diritti non tengano conto: norme di legge in forza delle quali, secondo piena legalità, si pretende di strappare a quel bimbo la sua fetta di torta, in nome della maggioranza. Così il legislatore, talora afflitto dal virus del populismo legislativo, non di rado eccede in prese di posizione legislative draconiane, contro quelle categorie che volta per volta siano oggetto della pubblica critica, bersagliandole con lo strale di norme durissime e, spesso, irragionevoli: così sotto la scure furente del legislatore populista ricadono lo “straniero”, l’ “inimputabile”, il “penalmente recidivo”, il “non vaccinato”, vittime di una ferocia legislativa spesso ingiustificata.
Il farmaco necessario a eradicare un tale virus del populismo può e deve essere ricercato nella persecuzione della legalità costituzionale: è attraverso l’intervento sistematico di un soggetto che eserciti la funzione di giudice delle leggi secondo il parametro costituzionale che si potrà ricostituire la violata legalità ai sensi della Costituzione e, così, rilasciare a quel bambino la sua fetta di torta. E tale soggetto è, nell’attuale ordinamento costituzionale italiano, la Corte Costituzionale che, investita in via principale o incidentale di questioni di legittimità costituzionale della legge, ha il compito di annullare le norme illegittime restaurando l’ordo costituzionale preesistente.
Ciò in quanto, come fu per la prima volta osservato dalla corte suprema degli Stati Uniti d’America nel caso Marbury c. Madison, nessuna Costituzione veramente rigida potrebbe esistere se si permettesse al legislatore ordinario di derogarvi senza la previsione di alcun rimedio ed in difetto di un sistema di garanzia: in quanto è solo la presenza di un sistema di garanzia a rendere rigida la Costituzione, la quale – seppure nominalmente inalterata – rimarrebbe irreparabilmente esposta alla scure del legislatore.Grazie alla previsione di un intervento riparatore della Consulta, nessuno può essere privato della sua “fetta di torta”: ma è anche necessario che nessuna di queste fette sia più grande o più buona delle altre. Ciò, perché in una civiltà giuridica moderna non possono esistere diritti costituzionalmente garantiti in assoluto: per quanto la tutela degli interessi delle posizioni giuridiche costituzionalmente garantite rappresenti una pietra angolare (per usare il lessico della giurisprudenza costituzionale) della forma di stato democratica, l’abuso del tutto smodato ed illimitato dei diritti diviene, da garanzia di giustizia, potente veleno, capace di corrodere i fondamenti della società.
Il bilanciamento si rende, segnatamente, necessario ogniqualvolta più diritti o interessi costituzionalmente garantiti si pongano in reciproco contrasto: poiché altrimenti la garentia di una delle posizioni giuridiche soggettive riconosciute dalla Legge fondamentale finirebbe per negare in concreto tutte le altre.La garanzia di uno ius in omnia del tutto immoderato ed insuscettibile di bilanciamento con altre posizioni giuridiche determinerebbe una situazione di sistematico ed intollerabile conflitto sociale, che HOBBES definisce come bellum omnium contra omnes: uno stato di fatto di assoluto disordine, nascente dall’anarchia generale e dall’incapacità dello Stato di porre limiti all’esercizio del diritto, che si trasforma inevitabilmente in abuso.
Gli unici diritti per i quali si esclude ogni forma di esclusione o limitazione in ragione del bilanciamento con altri interessi e posizioni sono il diritto alla vita e quello alla dignità personale. Pur risultando entrambi sprovvisti di espressa menzione costituzionale, questi iura connata individuali sono, però, indubbia prerogativa di tutti gli uomini semplicemente in quanto tali: la loro presenza positiva e la loro rilevanza giuridica trascendono le singole disposizioni della Legge Fondamentale, risultando deducibili dalla lettura di ciascuna norma del Nostro ordinamento, come più volte ribadito dalla Consulta.
La Corte costituzionale si assicura che ogni fetta sia tagliata nelle giuste proporzioni, attraverso il giudizio di bilanciamento costituzionale dei diritti, degli interessi e delle posizioni giuridiche soggettive costituzionalmente garantiti: tale sindacato – adempiuto nelle forme che la dottrina statunitense denominava “balancing test” (ROSCOE POUND) e quella germanica “Abwägung” – consente al Giudice delle leggi di esercitare i poteri connessi al proprio ufficio prevenendo ogni forma di sopruso nella guisa di una indiretta violazione di taluni diritti.
Così, in difetto di un adeguato bilanciamento non v’è legge che possa esistere: perché si tratterebbe di una legge arbitraria, che negherebbe arbitrariamente a qualcuno una parte significativa della sua porzione di torta.Così, spesso l’opinione pubblica afferma che “in democrazia vince la maggioranza”: ma è davvero sempre così? Quanto vale quella “fetta di torta”? Spesso ce ne dimentichiamo.
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Commento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 41/2021 sull’istituzione dei c.d. Giudici Onorari Ausiliari di Appello
La sentenza 41 del 2021 è un caso unico nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: essa riguarda i Giudici Ausiliari di Appello, i quali sono giudici onorari(1) in base ad un decreto legge, emanato dal Governo Letta, ovvero il D.L 69/2013 il cosiddetto “Decreto del Fare”, come convertito nella Legge 98/2013. Questi giudici non sono eletti per pubblico concorso ma sono nominati per decreto del Ministero della Giustizia, previa delibera del CSM(2) in base ai requisiti stabiliti dalla legge citata, su proposta formulata dal consiglio giudiziario territorialmente competente nella composizione integrata a norma dell’art. 16 del d.lgs 27 gennaio 2006 . Questa sentenza è stata sollevata con un giudizio in via incidentale(3) dalla Corte di Cassazione mediante le ordinanze di remissione n. 84 e 96 del 2019 con riguardo al giudizio di legittimità costituzionale degli articoli che vanno dal 62 al 72 del d.l. 69/2013 nella parte in cui conferiscono ai giudici ausiliari il ruolo di giudici onorari: questi articoli sarebbero stati, a dire del giudice a quo(4), in contrasto con l’art 106 Cost.(5).
Questa disposizione costituzionale attribuisce ai giudici onorari l’esercizio delle funzioni l’esercizio delle funzioni di giudice singolo, ovvero monocratico di primo grado, come già affermato nella sentenza 99/1964, giudici i quali solo “in via eccezionale e transitoria ed in caso di supplenza(6). Possono ricoprire funzioni collegiali, situazione già affermate dalla Corte nella sentenza 103/1998 dove si è parlato di “supplenza contingente in vista di situazioni eccezionali”. La Corte ha dunque dichiarato incostituzionali le norme oggetto di giudizio, nella parte in cui non si prevede che la loro vigenza sia circoscritta al periodo entro cui avverrà il riordino delle funzioni e del ruolo della magistratura onoraria , ovvero nei tempi stabiliti dall’ art. 32 del Decreto legislativo 116/ 2017, cioè entro il giorno 31/10/2025. La Corte si è quindi servita di una pronuncia manipolativa di tipo additivo(7) legittimando una “temporanea sopravvivenza del vizio di legittimità costituzionale” rispetto all’art 106 Cost.
Nel corso della sentenza la Corte opera una ricostruzione storica dettagliata della figura del magistrato onorario evidenziando come, sino ab origine-con l’istituzione del Vice Procuratore Onorario (VPO) e del giudice conciliatore, arrivando ai giorni nostri con l’istituzione del giudice onorario di pace(GOP)- questo tipo di magistrato abbia esercitato delle funzioni prevalentemente monocratiche e di primo grado. In sintesi, in base ad un’ interpretazione ermeneutica ed ortodossa dell’articolo 106 comma 2 Cost. la figura del giudice onorario compatibile con tale disposizione è quella di giudice singolo, monocratico e di primo grado che solo in via eccezionale e transitoria può comporre collegi di tribunale. Ad oggi, invece, dopo il D.L. 69/2013 i Giudici Ausiliari di Appello sono titolari di funzioni collegiali e di Secondo grado, quali sono quelle esercitate dalla Corte d’Appello.
La sent. 41/2021 si contraddistingue per una peculiare modulazione dell’ efficacia temporale: si tratta di una pronuncia caratterizzata da una peculiarità, ovvero il termine al quale si riallaccia l’efficacia della declaratoria di incostituzionalità con un forte monito al legislatore. Possiamo pertanto osservare come la Reductio ad legitimitatem operata dalla Consulta sia stata condotta attraverso la tecnica della pronuncia additiva inserendo, nella norma censurata, un termine entro cui il legislatore sarà chiamato ad intervenire.
La decisione in questione si qualifica per una efficacia profuturo della declaratoria di incostituzionalità resterà attiva ancora per 4 anni. Ad abundantiam, il Giudice delle Leggi ha chiamato – a sostegno della sua ratio decidendi- come precedente di illegittimità profusero, la sentenza 13/2004 in tema di dirigenti scolastici regionali, in occasione della quale la medesima corte ha espressamente detto che la norma censurata deve continuare ad operare in vista di una normativa idonea disciplinare il settore e la fattispecie.
La ratio principale che si pone a fondamento della tipologia della modulazione temporale de qua, è quella di prevenire un grave pregiudizio alla giustizia e all’ amministrazione pubblica(8). La Corte Costituzionale ha dunque operato sul fattore temporale dall’esterno, derogando alla disciplina degli effetti della sentenza di accoglimento ex art. 30 comma 3 L. 87/1953(9).
In nuce, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale gli articoli che vanno dal 62 al 72 del D.L. 69/2013, come convertito in legge n. 98/2013, nella parte in cui non prevedano che rimangano vigenti sino al termine stabilito dall’art 32 del d.lgs. 116/2017 ovvero entro il giorno 31/10/2025.
Inoltre, a fortiori, il Giudice delle Leggi ha ritenuto ragionevolmente fondata l’opzione di far decorrere l’illegittimità costituzionale delle norme oggetto di giudizio solo a partire dal 31/10/2025 essendo che l’illegittimità ex nunc provocherebbe un grave pregiudizio tanto alla Magistratura – art 111 Cost. quanto alla Pubblica Amministrazione.
L’efficacia ex nunc della declaratoria di incostituzionalità andrebbe a sovrapporsi- scontrandosi veementemente- con i precetti dell’art 106.2 Cost. per i motivi citati ut sopra, con l’art 97.2 Cost(10) che prescrive il buon funzionamento della P.A., violando l’articolo 102.1 Cost(11).1. L’aggettivo “onorario” sta ad indicare che svolge le proprie funzioni in maniera non professionale, poiché di regola esercita la giurisdizione per un lasso di tempo determinato senza ricevere una retribuzione, ma solo un’indennità per l’attività svolta, sono prevalentemente Avvocati con determinati anni di esperienza oppure professori universitari ordinari.
2. Il CSM è organo di autogoverno con lo scopo di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, in particolare da quello esecutivo, secondo il principio di separazione dei poteri espresso nella Costituzione della Repubblica italiana. In particolare è un organo di rilievo costituzionale, e si fa riferimento ad esso nella Costituzione italiana agli articoli 104, 105, 106 e 107. Il Consiglio superiore della magistratura è composto da 27 membri e presieduto dal Presidente della Repubblica che vi partecipa di diritto. Altri membri di diritto sono il primo presidente e il procuratore generale della Corte suprema di cassazione. Gli altri 24 componenti sono eletti[9] per i 2/3 da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti a tutte le componenti della magistratura (membri togati, 16) e per 1/3 dal Parlamento riunito in seduta comune tra i professori universitari in materie giuridiche e avvocati che esercitano la professione da almeno quindici anni (membri laici, 8).
3. è il giudizio di costituzionalità promosso, nel corso di un processo, da un giudice che chiede alla Corte di vagliare la legittimità costituzionale di una norma di legge di cui deve fare applicazione. Si differenzia dal Giudizio in via principale, che invece è il giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato avverso una legge regionale ovvero da una Regione avverso una legge dello Stato o di altra Regione.
4. è l’autorità giudiziaria che introduce un giudizio di legittimità costituzionale delle leggi in via incidentale, sospendendo il processo davanti a sé pendente.
5. Art 106 Cost :<>.
6. Supplenza prevista dall’art 105 dell’ordinamento giudiziario Regio Decreto n. 12/1941 cifr. Sent. 99/1964.
7. Sentenza di accoglimento manipolativa di tipo additivo: è una sentenza di accoglimento perché nelle sentenze di accoglimento la Corte Costituzionale, dopo aver compiuto una valutazione sulla questione di costituzionalità, la accoglie, dichiarando pertanto incostituzionale la legge in esame. Nelle sentenze di accoglimento la Corte dichiara l’incostituzionalità di una determinata interpretazione della legge e ne impone una conforme alla Costituzione; in quelle di rigetto invece quando dichiara la legge costituzionalmente legittima purché interpretata in un certo modo. È una sentenza c.d. manipolativa di accoglimento, perchè la Corte rivede (“manipola”) il contenuto di una legge, per evitare di dichiararla incostituzionale ed impedire così la formazione di un vuoto normativo nel sistema. É infine additiva perché aggiunge un termine, un dies a quo, dalla quale decorre la declaratoria di incostituzionalità.
8. Artt 111 Cost et 97.2 Cost.
9. LEGGE 11 marzo 1953, n. 87. Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale 12.
10. Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [95 c.3], in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari [28].
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge [51 c.1].11. La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario [cfr. art. 108].
Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali [cfr. art. 25 c.1]. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura [cfr. VI].
La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia-L’art 111 cost. Statuisce: <>
PICCOLO PENSIERO RIGUARDO AL DECRETO RAVE-PARTY
Nella giornata del 31 ottobre, con il decreto legge 162/2022, il Consiglio dei Ministri ha introdotto nuove misure tra loro eterogenee, che spaziano dallo stop all’obbligo vaccinale per i medici all’ergastolo ostativo per finire ai Rave Party.
Questo ultimo punto ha suscitato parecchio clamore mediatico, dando adito al giustizialismo mediatico.
Il decreto aggiunge l’art 434-bis al c.p. che punisce “l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a 50, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso possa derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
La pena oscilla tra i 3 e i 6 anni per chi promuove ed organizza( assieme ad una multa che può arrivare ai 10 mila euro) mentre la sanzione è diminuita per la sola partecipazione. Come possiamo ben notare, per quelli come me, amanti di una visione garantista et liberale del diritto, non è un buon inizio per IL Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Tale nuova fattispecie, infatti, si presta ad una infinità di interpretazioni. Se la sanzione scaturisce da una eventuale pericolosità dell’evento, quand’è e con quali parametri che un singolo partecipante, a differenza del promotore dell’evento, può realmente rendersi conto di star partecipando ad una iniziativa che potrebbe sfociare in un turbamento dell’ordine pubblico?
La norma, a fortiori, dispone la confisca del materiale utilizzato per la commissione del reato e, tramite una modifica del codice antimafia d.lgs. 159/2011, consente misure di prevenzione personali per gli indagati e l’utilizzo di intercettazioni.
Ancora una volta notiamo un abuso della decretazione di urgenza prevista ai sensi dell’art 77Cost., più che un urgenza e una necessità ci troviamo di fronte ad una norma di stato di polizia ed una norma politica che rappresenta a pieno il populismo penale nel quale siamo incastrati da decenni.
Prendiamo ad esempio il corteo del 10 novembre accaduto a Bologna, dove i manifestanti che protestano dietro ad un furgone che percorreva la città con musica a tutto volume , è poi sfociata in un atto violento nei confronti del Presidente Meloni e con un atto vandalico, punibile ai sensi dell’art 421 c.p, e art 639, nei confronti di un palazzo storico ora in affitto al supermercato Sapori e dintorni.
Scritto da Luigi Filippo Daniele.-
Grazie per questo contributo 👍
La sentenza che hai richiamato dà occasione di esprimere qualche perplesso commento su una tralatizia – e discutibile – prassi da lunga data seguita dalla Corte costituzionale.
Questa sentenza si caratterizza infatti inter alia per la sua irretroattività, dal momento che la Corte costituzionale ha previsto il venire in efficacia della propria pronuncia dopo molti mesi dalla pronuncia: ciò, per evitare repentine anomalie nell’operato dell’ordine giudiziario, come comprensibilmente sarebbe avvenuto se dall’indomani molti magistrati fossero stati sollevati dal proprio ufficio.
Ciò ha natura straordinaria: infatti, le leggi che disciplinano il processo costituzionale sanciscono il principio in forza del quale ogni sentenza costituzionale è ipso iure retroattiva.
Siffatta scelta si giustifica in considerazione del tipo di vizio che affligge la legge condannata: l’annullabilità, dovuta alla difformità dal parametro costituzionale.
La pronuncia di annullamento, tanto nel diritto pubblico (exempli gratia, l’annullamento del provvedimento amministrativo della Pubblica amministrazione), quanto in quello privato (exemplum ut afferam, l’annullamento del contratto, del testamento, del matrimonio, eccezion fatta per gli effetti del matrimonio putativo), ha normalmente natura retroattiva: esistono modeste eccezioni puntualmente segnalate dalla legge (exemplum ut dicam, l’annullamento di un contratto di Società di capitali, purché già iscritto nel registro delle imprese), ma si tratta di casi eccezionali.
A ben vedere, l’art. 30 della L. 11 marzo 1953, n. 87, confluendo in tale alveo, stabilisce che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Annullare una legge, dunque, significa rimuovere con pronuncia costitutiva l’atto la cui validità è censurata, con tutti i suoi effetti medio tempore prodotti, dal momento in cui fu posta in essere.
Anche nel panorama della giurisprudenza costituzionale nazionale, dunque, la regola è quella della retroattività.La pronuncia da te ricordata, appartiene ad un – ormai non esile – genus di pronunce straordinarie: talora, infatti, il Collegio, avvertendo la necessità di evitare subitanee alterazioni della disciplina vigente, dispone autoritativamente che le proprie pronunce non abbiano efficacia retroattiva, ma che inizino ad esplicare efficacia giuridica dal dies a quo indicato in dispositivo. Ciò fa la Corte, dottamente richiamando i poteri di modulazione dell’efficacia intertemporale delle pronunce puntualmente riconosciuti alla Corte di Karlsruhe, a quella di Strasburgo o a quella di Lussemburgo.
In particolare, così avviene frequentemente in ambito tributario, nella materia dei servizi pubblici o nel contesto amministrativo, al fine di evitare cesure e discontinuità nell’applicazione della legge, o improvvisi e non pianficabili vuoti erariali. Tra le prime pronunce in tal senso, per esempio, il collegio negò efficacia retroattiva ad una sentenza che annullava una legge tributaria: più di recente dava forza irretroattiva al principio per cui siano trasmessi alla prole, salvo diverso accordo, i cognomi di entrambi i genitori.A mio avviso, questa tralatizia prassi decisionale della Corte Costituzionale deve essere considerata illegittima: perché non prevista dalla legge. Ciò in quanto la Corte Costituzionale, sebbene sia un Collegio chiamato a conoscere della costituzionale legittimità delle Leggi, non è dispensata dalla loro osservanza, né autorizzata a derogarvi per motivi di opportunità politica: e tale affermazione è confermata dall’art. 117 della Costituzione repubblicana, onde il giudice è soggetto esclusivamente alla legge, perlomeno nella misura in cui la Corte costituzionale possa essere qualificata quale un giudice.
Una soluzione che consenta la modulazione degli effetti nel tempo della sentenza è ben comprensibile in ordinamenti, quali quello Tedesco, quello CEDU o quello Eurounionale, che espressamente la contemplano: non dovrebbe esserlo in contesti normativi nei quali, invece, questa facoltà non è riconosciuta per espressa scelta legislativa.Ciò, a ben vedere, non comporta necessariamente il rischio di lesione dei beni della continuità e certezza dei rapporti giuridici, che la Consulta così si propone di presidiare: infatti, è configurabile quale più semplice e naturale rimedio l’intervento diretto del Legislatore, che ben può esprimere leggi retroattive nella maggior parte dei settori della vita pubblica, così da porre riparo alle più gravi cesure. In tal modo, la Corte potrà evitare l’inaccettabile paradosso di dover ordinare l’esecuzione di una legge che abbia già riconosciuto in costituzionale
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SCRITTO DA ANDREA SOPPELSA.
IL PENSIERO MERIDIANO
Cosa accadrebbe se, improvvisamente, la percezione comune subisse un ribaltamento e il sud del mondo non fosse più considerato alla stregua di un “non ancora nord” o di “nord mancato”, la sua “lentezza” fosse il tempo comune e la velocità del nord un difetto della modernità? È questo uno dei presupposti e dei problemi estrinsecati ne Il pensiero meridiano, raccolta di saggi e articoli di Franco Cassano (1943-2021), già professore di sociologia all’università di Bari, pubblicata come libro da Laterza nel 1996 e rieditata nel 2021.Innanzitutto, che cos’è il pensiero meridiano (variamente denominato altresì pensiero mediterraneo o meridionale)? Si tratta di un pensiero lento, meditato; per l’autore, questo è l’unico vero pensiero, una “costruzione antisismica” perché solo la riflessione, il pensiero lento appunto, ci permette di uscire indenni dalle crisi, differentemente dalla risposta immediata che, invece, può portarci in errore. Non è un caso se, tutti noi, prima o poi, in un momento di difficoltà, avremmo o saremmo stati consigliati di “pensare a mente fredda” anziché agire immediatamente e avventatamente. Il pensiero meridiano è proprio questa lenta elaborazione, che permette di vagliare con la dovuta calma la situazione.
Il pensiero meridiano è proprio di tutti i sud del mondo, ma pone come termine di paragona il sud dell’Europa e come proprio centro il mar Mediterraneo. Infatti, il Mediterraneo ha abituato i popoli bagnati dalle sue acque all’incontro (e, eventualmente, anche allo scontro) con l’Altro, all’idea di partenza, all’esperienza della frontiera. Noi italiani lo sappiamo bene: ricordiamo i transatlantici che per decenni hanno trasportato i nostri connazionali verso gli altri continenti, mentre oggi assistiamo quasi indifferenti al dramma delle insicure imbarcazioni -cariche di una disperata umanità, pronta a mettere a repentaglio la vita per la ricerca di un avvenire migliore- che fanno la spola tra la sponda nordafricana del Mediterraneo e la Sicilia. Peraltro, tra i numerosi vocaboli greci per indicare il mare (thalassa, als, pelagos, kuma et c.) uno di questi è pontos: braccio di mare, ponte che congiunge e distacca da un Altro che rimane a distanza, su un’altra riva.
In particolare, si evidenzia una possibile correlazione tra il pensiero della Grecia classica e il Mediterraneo che, a fronte di una struttura prevalentemente montuosa della penisola ellenica e alle sue numerose isole, costituiva una via preferenziale per gli scambi e gli spostamenti. A sud della Tessaglia, la più settentrionale delle regioni greche, non c’è luogo che dista più di 60 km dal mare. Da questa inesausta e inevitabile abitudine all’apertura e alla esperienza dell’alterità sarebbe scaturita una produzione culturale che prediligeva la problematicità, il dialogo (logos), la filosofia. Infatti, politeismo, tragedia e filosofia conoscono la legittimità di più punti di vista, la difficoltà della loro coesistenza, l’attitudine incessante al dialogo e alla contraddizione.
Secondo Cassano, il pensiero meridiano si basa su 4 caratteri fondamentali:
L’AUTONOMIA: si deve interrompere una lunga sequenza in cui il sud è stato pensato solo da altri come “non ancora nord”, come forma incompiuta e sottosviluppata, e restituirgli l’antica dignità di soggetto del pensiero. Tutto ciò, tenendo presente che i “vizi meridionali” non sono, come fa comodo credere, una prerogativa del sud, ma l’effetto della emarginazione e della colonizzazione a cui è stato sottoposto.
LENTEZZA: la modernità ha stabilito una connessione tra progresso e velocità, una “tirannia dell’urgenza”, che, però, erode la memoria sociale, perché percepita come un limite alla libertà dell’homo currens. L’homo currens, prodotto della modernità e del turbocapitalismo, rigetta come una perdita di tempo anche la discussione, ma la democrazia non è possibile a qualsiasi velocità e la deriva anomica sembra dietro l’angolo.
MEDITERRANEO: il Mediterraneo è una connessione, un pluriverso irriducibile, quel pontos che ha abituato i popoli all’incontro con l’altro, all’idea di partenza, all’esperienza della frontiera. È nel Mediterraneo che va diluita la modernità inconsapevole, troppo presa dalla corsa allo sviluppo; è qui che possono stemperarsi i dilemmi della globalizzazione.
MISURA: la misura è quell’equilibrio tra due fondamentalismi di segno opposto, quello della terra, che illustra le identità, e quello del mare, che illustra l’avventura della libertà individuale. Da qui si può trarre la differenza tra un Ovest europeo che enfatizza la libertà individuale e un Est che narra l’importanza della coesione sociale e le relative degenerazioni di questi fondamentalismi senza misura.
Che cos’è, quindi, il pensiero meridiano? Secondo Cassano, si tratta dell’attenzione per i punti deboli di ogni discorso forte, della volontà di difendere la molteplicità del mondo contro la pretesa dei vincitori di chiuderlo nel loro uni-verso. È, insomma, un gesto di rottura e di rivendicazioni dell’autonomia del sud (dei tanti sud del mondo) e la difesa della molteplicità e varietà culturale.
In definitiva, “pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera”. -
UNO SGUARDO PSICOANALITICO SUL POPULISMO: LA POSIZIONE DELL’INDIVIDUO NELLE MASSE
Il populismo è la forma politica che maggiormente rappresenta ad oggi le democrazie occidentali e che negli ultimi decenni è stato connotato ampiamente con accezione negativa. C’è molta correlazione con la vittoria capitalistica che ha sconfitto e annientato ogni ideale prevedente un popolo caratterizzato da uguaglianza e libertà, ma soprattutto la speranza di avere un popolo. I valori consumistici hanno trasformato i popoli ,composti da persone, in masse: queste sono formate da individui denotati attraverso un valore economico e che riportano intrinsecamente le caratteristiche invarianti del mercato, la produzione e il consumo, alla stregua di un umano non più portatore di vizi e virtù, diritti e doveri, valori e ideali, bensì come essere vendibile e monetizzabile, che riflette il paradigma societario dell’utile tirannico.
Dal punto di vista psicologico il fenomeno del populismo può essere guardato come la necessità (o la costrizione) di avere un leader carismatico che si faccia portavoce, in modo anche fittizio, dei problemi delle classi sociali medie e che, attraverso il potere d’influenza esercitato restituisca un senso di sicurezza che manca all’individuo moderno. Certamente questo può sembrare molto simile alle condizioni che portano le società alle scelte di dittatori e tiranni, indipendentemente dalle azioni aberranti e disumane messe in atto in quanto questo aspetto richiederebbe un altro spazio di riflessione. A parere del sottoscritto, infatti, le condizioni e i presupposti psichici sono molto simili, ciò che cambia nel populismo è la matrice sociale di riferimento, quel terreno comune che determina la comprensione e il significato di tutti gli eventi (Foulkes, 1964).
Fin dagli inizi la psicoanalisi si è occupata di psicologia delle masse, nonostante venga spesso identificata come la scienza che si occupa esclusivamente dell’individuo. La realtà è che, Freud, già a partire dai suoi primi scritti ha sempre dato rilevanza al contesto sociale (che qua chiameremo matrice) allargato per definire i suoi costrutti psichici e la sua intera metapsicologia, e cercando di comprendere, anche se spesso abbagliato dalla luce delle sue scoperte, il rapporto che vi è tra contesto storico-culturale e individuo. Per Freud il rapporto del gruppo con il capo è dato da meccanismi di identificazione attraverso un processo con il quale l’Ego ideale individuale viene sostituito da un oggetto esterno. Ovviamente oltre alle dinamiche in sincronia bisogna considerare in una prospettiva individuale analitica che tutti i processi transferali diacronici si attivano nell hic et nunc di una precisa situazione storica e sociale, rendendo il campo un oggetto di indagine complesso e quindi di difficile distinzione tra il “qui e ora” e il “lì e allora”.
La domanda che sorge spontanea è il chiedersi come mai certi tipi di capi? Come mai una forma politica basata sul populismo? Certamente le risposte non possono che essere interpretative. L’individuo è intrinsecamente portato a mettere in atto meccanismi di difesa, funzioni proprie dell’Io, per poter gestire le conflittualità interne ed esterne (Freud). Il mondo attuale è sicuramente caratterizzato da una serie di emozioni (maniacalità, tristezza depressiva) dove la dominante spesso appare essere la paura. Queste emozioni primitive devono essere tenute a bada dall’individuo attraverso i suoi meccanismi di difesa inconsci per evitare la frammentazione del suo Sé, ovvero una condizione psichica arcaica, che potremmo identificare come una condizione simil-psicotica in cui i confini tra realtà esterna e mondo interno sono labili. Prendendo in prestito le parole di Melanie Klein potremmo dire che viviamo in un mondo fermo alla posizione schizo-paranoide senza però riuscire a starci senza angoscia di persecuzione (capacità negativa di Bion). Questo significa che gli individui che vivono in questo periodo utilizzano il meccanismo della scissione, dividendo l’esperienza esterna in buona o cattiva senza possibilità di integrare le parti. Il populismo moderno aderisce perfettamente a questo modo di pensare, incarnando tutte le caratteristiche positive che vengono proiettate dagli innumerevoli seguaci e scaricando gli aspetti negativi disconosciuti nei confronti del nemico. Certo che la tattica del trovare un nemico è una modalità assai nota e antica di manipolazione delle masse e non rappresenta una caratteristiche specifica del populismo, tuttavia è interessante notare come con l’avvento dell’era digitale il populismo sia stato in grado di creare un nemico in assenza del nemico stesso: non è il nemico della guerra, del fronte, che ti ritrovi davanti, è un nemico costruito a pennello, un nemico vestito di caratteristiche (dis-)umane che non si sa nemmeno se gli appartengano davvero. Altri motivi che potrebbero portare il populismo sul trono (ossimoro sarcastico, ma non poi così tanto) sono tutte quelle serie di modalità individuali (oltre all’identificazione e la scissione) per non sentire e percepire l’incertezza, alla quale siamo più che mai intolleranti, come ad esempio la compensazione. Per Adler questa difesa è come un naturale sforzo che tutte le persone mettono in atto al fine di superare il complesso d’inferiorità mentre per Freud è un movimento volto al non sentire i propri limiti e le proprie debolezze, che vengono compensati proiettando aspetti grandiosi (derivati di un Narcisismo primario) in oggetti esterni ai quali poi si legano.
La psicodinamica dei gruppi può aiutare a dare uno sguardo più attento al fenomeno del populismo. Bion, grande esponente della scuola inglese psicoanalitica, si è occupato del Gruppo riuscendo ad osservarlo nelle sue due componenti primarie: il gruppo di lavoro e il gruppo in assunto di base. Il gruppo di lavoro è un insieme di individui che hanno un obbiettivo da raggiungere per il quale si sono riuniti; è raro però che questi riescano sempre a seguire con razionalità gli scopi prefissati in quanto in maniera inconscia esiste l’altra faccia della medaglia: il gruppo in assunto di base. Gli assunti di base sono fantasie inconsce condivise che rappresentano il motivo “virtuale” per il quale il gruppo si è riunito; “in altre parole, i componenti del gruppo iniziano ad agire sulla base di un assunto riguardo al gruppo che è diverso dal compito preposto”. Gli assunti di base identificati da Bion sono 3: attacco-fuga, dipendenza e accoppiamento. Nell’assunto di dipendenza il gruppo si riunisce per contrastare le angosce depressive e mette atto debolezze e incapacità, necessitando appunto di dipendere da qualcuno di superiore. L’assunto di accoppiamento consiste in una credenza che due membri del gruppo si accoppieranno e daranno vita a un messia, un salvatore (in futuro) che placherà tutte le loro angosce. Infine, il gruppo attacco-fuga è una regressione schizo-paranoide: la cattiveria è proiettata all’esterno ed è quindi necessario scappare o attaccare. Nonostante Bion queste teorizzazioni nascano dall’osservazione di piccoli gruppi gruppoanalitici mi piace pensare come questi concetti siano espandibili anche su gruppi di larga scala, come popoli e società (tema tutt’ora dibattuto in psicoanalisi).
La rivisitazione di Bion conferma le geniali intuizioni di Freud sui gruppi, come quella di aver ritenuto libidica la natura del legame tra capo e gruppo. Un legame che oso ipotizzare abbia natura transferale con riattualizzazione di modelli operativi interni generati nel rapporto con le figure genitoriali come espressione di un’alterità autoritaria (Super Egoica), nel superamento di una triangolazione edipica grazie all’elaborazione del lutto per la morte del desiderio di uccisione del padre. La forclusione del nome del padre, così come enunciato da Lacan, crea una condizione psichica immatura e fragile che non è in grado di tollerare l’incertezza senza persecuzione (-K, Bion) e quindi ricerca assiduamente, oltre che a un capo paterno, un gruppo che soddisfi gli assunti di base di accoppiamento e dipendenza.
La scelta del leader tramite identificazioni proiettive è indipendente dalle necessità del gruppo di lavoro e in rapporto invece a quelle dell’assunto di base dominante. Non si sceglie un capo gruppo per adesione a ideali ma in quanto possiede qualità (o sembra possederle) che lo rendono adatto a soddisfare i bisogni (inconsci) del gruppo di base. Importanti nell’analisi del populismo sono le qualità e le capacità di perdere la propria individualità (divenendo automa), le scarse capacità di contatto con la realtà e la capacità di esprimere le richieste emotive del gruppo di base. Questi aspetti dimostrano come un gruppo possa essere considerato una condizione regressiva, per tutti i membri che ne fanno parte, portando gli individui a condizioni precedenti quelle dell’individuazione e più vicine a una fusionalità quasi infantile. Il seguire il gruppo, l’esistere e l’essere nella matrice, sono delle condizioni ricercate perché portano vantaggi non di poco conto per l’individuo: la creazione di un pensiero unico, il silenziamento dei conflitti interni, l’evitamento dell’angoscia di castrazione (assertività), la diffusione di responsabilità e tante altre. Inoltre, mi piacerebbe concludere ponendovi due prospettive diverse sull’emancipazione: la scuola Umanista e positivista degli anni ’60 vede l’individuo come programmato all’autodeterminazione e alla libertà e quindi la società è l’ostacolo che si contrappone a queste tendenze naturali (opposto a Freud che riteneva la società una diga necessaria per tenere a bada le pulsioni). Dall’altra parte invece un’altra corrente, di cui un esponente è Erich Fromm, ritiene che la libertà spaventi a tal punto l’individuo che egli troverà qualsiasi modo e strumento per poterla fuggire. Certamente la psicologia non nasce per giudicare bensì per analizzare le questioni psichiche ma tuttavia: “Una teoria psicologica propone inevitabilmente dei valori, non è solo un enunciato solo persone, ma un atteggiamento nei loro confronti, un modo di mettersi in relazione con l’umanità” (Bannister, 1986). -
L’origine del populismo nella Russia zarista di Matteo Mulè.
La società russa della fine del XIX secolo era caratterizzata da una forte arretratezza economica e sociale. L’economia, al contrario delle grandi potenze europee, si basava ancora per la maggior parte sull’agricoltura e l’industria tardava a svilupparsi, se non in un qualche centro urbano come San Pietroburgo. I servi della gleba costituivano ancora l’85% della popolazione, mentre i nobili proprietari terrieri, che pure rappresentavano meno dell’1%, detenevano gran parte del potere economico, anche perché era quasi assente una borghesia in grado di contrastarli e in tal modo di garantire una economia più diversificata.
Lo zar Alessandro II (1855-1881), in una Russia sempre più chiusa e isolata dal panorama industriale che si andava a delineare in Europa Occidentale, cercò di modernizzare il paese abolendo la servitù della gleba (1861) e istituendo gli zemstvo (1864), ovvero delle assemblee elettive provinciali, formate da membri che provenivano sia dalla nobiltà, sia dalla borghesia che dal mondo contadino. Gli zemstvo vennero creati con lo scopo di differenziare l’amministrazione locale, cercando di limitare l’influenza e il potere che avevano i nobili nel mondo contadino, anche se in realtà tale riforma non ebbe il successo sperato, dato che la nobiltà, alla fine, mantenne i propri privilegi.
Fallimentare, almeno in una fase iniziale, fu la liberazione dei servi della gleba, dal momento che i contadini non avevano i mezzi finanziari per poter riscattare la terra dai nobili e quindi ritrovandosi, alla fine, a dover lavorare per loro oppure andando ad aumentare la massa di lavoratori disoccupati delle città.
In questo clima di riforme inefficaci, che non fecero altro che aumentare il dissenso da parte delle classi più povere della società, si sviluppò un movimento politico di protesta chiamato “populismo”. Con il termine “populismo” si intende storicamente un movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia nella seconda metà dell’Ottocento, che vedeva nel popolo russo e nella sua tradizionale organizzazione comunitaria la base per realizzare una società di stampo socialista e collettivista, intraprendendo, in questo modo, un percorso diverso da quello dell’Occidente capitalista.
Lo scopo degli intellettuali che appartenevano al movimento, per lo più studenti, era quello di educare il popolo, al fine di sviluppare una vera e propria coscienza di classe e di attuare una rivoluzione sociale nella Russia zarista.
Si andarono a creare delle vere e proprie assemblee popolari, dove gli studenti e gli intellettuali aizzavano le masse contro il potere zarista, diffondendo progetti politici quali la distribuzione delle terre ai contadini e cercando di educare la gente dei campi al senso della libertà allo spirito del socialismo, facendo leva anche sulla forte rabbia sociale del tempo.
In casi estremi i movimenti populisti si indirizzarono verso vere e proprie azioni terroristiche, delle quali rimase vittima lo stesso zar Alessandro II.
Gli obiettivi che questi giovani studenti si erano fissati non vennero mai raggiunti. La nobiltà mantenne i propri privilegi e una rivoluzione vera e propria non ci fu, se non qualche sommossa a livello popolare, repressa subito nel sangue dalla guardia zarista.
Il problema principale di queste masse, come segnala anche il celebre autore Dostoevskij in Delitto e castigo, è la mancanza di una coscienza di classe, di una identità, che successivamente si svilupperà con la corrente bolscevica e conseguente Rivoluzione d’ottobre. A questo si deve aggiungere il basso di livello d’istruzione e di alfabetizzazione da parte dei contadini, che li rendeva delle pedine, in alcuni casi, in mano ai politici o intellettuali che ne potevano manipolare le menti e indirizzare l’odio e le paure verso dei problemi o nemici inesistenti.
Di questa esasperazione sociale seppero farne un gran uso gli ultimi due zar, ovvero Alessandro III (1881-1894) e Nicola II (1894-1917) i quali fecero leva sul nazionalismo. Dinnanzi ai problemi che affliggevano la Russia di fine Ottocento e inizio Novecento, come la mancanza di infrastrutture, di politiche economiche volte ad eliminare le malattie legate alla malnutrizione e un progresso che aveva toccato a malapena il paese, gli zar diedero colpa della situazione sociale agli ebrei oppure al “malvagio Occidente capitalista”.
Guidati molte volte dalla guardia nazionale o aizzati dai politici, i cittadini e i contadini rivolsero il loro malcontento contro gli ebrei, attuando dei massacri che in Russia presero il nome di pogrom. Gli ebrei furono costretti ad emigrare verso gli Stati Uniti o negli altri paesi europei; in questo modo la Russia perse l’unica classe mercantile del proprio paese e una grande quantità di capitale.
Il populismo nacque come un movimento dedito all’educazione e scolarizzazione del popolo, con l’intento di sviluppare una coscienza di classe ai contadini e una conoscenza base per non essere più sfruttati dalla classe nobiliare e favorire una più equa ripartizione delle terre, ma alla fine le masse popolari si ritrovarono alla mercé dei loro leader che indirizzarono la rabbia e il malcontento popolare verso i loro scopi politici o economici.
Il popolo russo solamente con la rivoluzione d’ottobre (1917) acquisterà una prima base di coscienza di classe, anche se l’avvento al potere della figura di Stalin (1922-1953) porterà solamente ad una sostituzione della classe nobiliare con i burocrati statali, lasciando le masse popolari in miseria e sottoposte alla rigida ideologia dello Stato. -
Ciao a tutti, mi presento, sono Emanuele e sono un persona Asperger. Magari vi starete chiedendo (se non lo conoscete) che cosa vuol dire rientrare in questo quadro di caratteristiche. Fondamentalmente le persone Asperger si caratterizzano per delle difficoltà nelle interazioni sociali insieme ad un disadattamento generale ai presupposti e alle convenzioni della comunicazione quotidiana. La mia storia parte da questo antefatto. Mi trovavo all’asilo giocavo tra me e me, non ero distratto ma focalizzato sul gioco singolo. Non ero interessato a relazionarmi con gli altri bambini ma soprattutto venivo bollato e considerato dagli altri come un bambino poco socievole. Cionondimeno tutto questo venne sorvolato dai radar diagnostici e la prima diagnosi ricevuta di Asperger risale a quando avevo 16 anni (3 anni fa). Se le convenzioni, che tutti noi rispettiamo per un efficace interazione con l’interlocutore, sono l’avere un abbigliamento opportuno a seconda del contesto sociale, il rispetto del contatto visivo e la capacità di immedesimarsi nell’interlocutore (provare empatia o una certa risonanza emotiva) al contrario i possibili presupposti per un interazione ottimale sono il linguaggio, i segnali para-verbali (tono della voce, enfasi ma più in generale la prosodia) e non verbali (segnali che possono essere l’alzare le sopracciglia per indicare stupore o sorpresa, avere le stesse aggrottate per far trasparire perplessità, l’incomprensione nel discorso quindi, più in generale, il linguaggio del corpo). Un’altra caratteristica che risaltava di me era l’immaturità nei movimenti, la camminata maldestra (quando camminavo inciampavo sui miei piedi) ma anche una buona e precoce capacità di lettura. Quest’ultima mi portava a essere ben visto oltre che dai compagni di classe anche dalle insegnanti che, presi dallo stupore e dall’ammirazione, chiamavano i bidelli per farli venire a sentire come leggevo. Poi un giorno, tornato a casa da scuola mio papà (che è sempre stato un uomo dubbioso) mi sottopose un testo da leggere. Lettura impeccabile. Ma quando arrivò la fatidica domanda “dimmi che cosa hai capito” tutto si fermò. Silenzio totale. Questo per dire che le persone Asperger sono molto capaci nella lettura (iperlessia) ma hanno difficoltà nella rielaborazione del testo. Altre caratteristiche che risaltano in questo tipo di persone sono la mancata esternazione delle emozioni (partecipare emotivamente ad una situazione condivisa, manifestare felicità in un momento significativo e importante oppure manifestare rabbia dopo una situazione di sovraccarico mentale perché per certi versi essa è liberatoria e così via). Ricordo, dalla mia esperienza personale, che quando mi chiedevano cosa sentivo, cosa provavo (quale emozioni percepivo) ad esempio quando mi relazionavo io non sapevo rispondere. Ero ammutolito e rispondere a una di queste domande rappresentava uno dei possibili modi che mi potesse silenziare.
La sindrome di Asperger è una condizione inserita nei disturbi dello spettro autistico e già la parola spettro indica una pluralità di caratteristiche e differenze da persona a persona. Difatti le caratteristiche e i criteri diagnostici della sindrome non toccano tutti quanti ed è proprio per questo che è difficile sviluppare un discorso a senso unico in questo spettro e solitamente si fa valere un punto di vista a seconda della persona considerata (le terapie riabilitative vengono individualizzate da paziente a paziente. Ancora, il tono di voce monocorde (un tono che rimane piatto e costante con frequenti oscillazioni della velocità del parlato), il linguaggio tangenziale (l’intenzione di tenere un discorso in cui, sviluppandolo, si perde lo scopo della comunicazione) e la teoria della coerenza debole centrale (in una lezione o in un argomento discusso è necessario, al momento della rielaborazione, richiamare il nocciolo della questione o il quadro generale del discorso ma solitamente le persone Asperger non riescono a riassumere la situazione e ricordano più i dettagli che le cose essenziali) sono alcune della caratteristiche che contrassegnano questo tipo di persone. -
IL PROGRESSO, UN ARTICOLO REALIZZATO INSIEME A POLIS FUTURA.
Il Progresso, una parola incisiva che segna la direzione proseguita dagli occidentali, questo vocabolo, di per sè pregnante, indica l’avanzamento ad uno stadio superiore, ad un evoluzione, ad un miglioramento (la parola progresso è inscrivibile in qualsivoglia ambito del sapere, dalla politica alla storia, dalla filosofia alla scienza e la lista potrebbe continuare a oltranza). In questo breve scritto cercherò di mettere a fuoco soprattutto il significato che ha assunto il progresso in contesti come quelli della filosofia e della scienza (ripercorrendo, a grandi linee, la storia antica passando per l’età moderna andando a toccare e a raggiungere la storia – filosofico scientifica – contemporanea).
Se andiamo a scavare nel passato, in particolare dopo il diffondersi della società ellenistica, troviamo come Seneca concettualizza il progresso, affermando che lo sviluppo dell’uomo, il suo progresso è da ricercare nella saggezza, nella sagacia, nell’intraprendenza dell’individuo. La persona così intesa è persona che fa di tutto per industriarsi, per procacciare una vita diversa da quella che lo ha preceduto, per raggiungere con le sue abilità l’edificazione morale e intellettuale.
Il progresso per Seneca non rivolge solo uno sguardo generale ma anche specifico nella misura in cui idealizza il «progresso futuro» : ciò che è in passato, i saperi o le cose conosciute, sono soppiantate da quelle presenti, di cui è consigliabile prenderne atto (per rintracciare una connotazione progressista), se non fosse che anche quelle presenti, in seguito, saranno superate dalle cose future e i posteri, dice Seneca, si meraviglieranno di quante cose avessimo ignorato in quei tempi lì. Le sue parole, riformulate nelle mie brevi righe, sono riassunte in questa celebre frase:«Verrà un giorno in cui il passare del tempo e l’esplorazione assidua di lunghi secoli porterà alla luce ciò che ora ci sfugge. Verrà il giorno in cui i nostri posteri si meraviglieranno che noi ignorassimo cose tanto evidenti.»
Il concetto di progresso viene profusamente trattato anche nel “De rerum natura” di Tito Lucrezio Caro, poeta e filosofo romano. Esso giudica non solo che il progresso è buono, utilitaristico ma afferma altresì che esso deve essere indirizzato al miglioramento della natura al fine di colmarne le imperfezioni e le lacune. Secondo questa angolatura, nel progresso tecnologico, in questo modo inteso, è possibile ravvisare sì i vantaggi ma anche svantaggi: consente l’appagamento di bisogni naturali ma non di quelli necessari, che modulano e declinano il piacere provato in tanti possibili modi che essi successivamente, col pubblicismo mediatico, verranno surrogati da interessi nuovi, innovativi e perciò più stimolanti, più allettanti.
L’idea del progresso è rintracciabile anche nel pensiero cristiano che, avendo ereditato diversi caratteri dalla tradizione ebraica, intende la storia come un avvicendarsi di eventi che procedono (metaforicamente questa concezione è visualizzabile proprio come una “semiretta” che parte da un tratto di per se finito, e prosegue all’infinito sino a raggiungere l’infinita trascendenza ed, escatologicamente, la salvezza spirituale.
La concezione di un progresso, di un avanzamento rettilineo partendo da una radice, da un inizio divino approdando alla conclusione del mondo, all’Apocalisse è una concezione presa in considerazione da svariati ecclesiastici e intellettuali cristiani quali Agostino d’Ippona e Bernando di Chartres nel medioevo cristiano. Quest’ultimo presentava in maniera fantasiosa e allegorica il concetto del progresso secondo cui gli uomini, dei nani rispetto agli antichi giganti, poggiavano sulle loro spalle per vedere meglio, lontano, il futuro che li attendeva.
Anche autori più moderni si pronunciano e non sorvolano il concetto di progresso. Un esempio lampante è Hegel che, nella Fenomenologia dello Spirito, esplica la storia come un intinerario che conduce, a mano a mano, all’autocoscienza razionale dello spirito umano (ovvero sia alla consapevolezza di sé attraverso la ragione in modo tale che, l’autocoscienza, si scopre libera e autonoma che trova la propria attuazione in forme politiche-sociali più mature.
Nella “filosofia della storia” di Voltaire, illuminista che propugnava il cosmopolitismo e il pacifismo a discapito del militarismo, riecheggia il progresso come il passaggio dalle barbarie alla civiltà in cui predomina la ragione anziché l’irrazionalità che potrebbe, nessuno lo esclude, ritornare col fanatismo religioso, con le guerre e via discorrendo ad una situazione mortifera di involuzione e di decadenza. La rassegna potrebbe “infinitizzarsi” direbbe Giovanni Gentile, rifacendosi allo spiritualismo di Hegel, ovvero proseguire all’infinito (si potrebbe approdare, continuando l’analisi, i fisiocratici, Turgot e Condorcet, fino a Saint-Simon e a August Comte, fondatore della sociologia) mentre qui mi sono limitato a distillare il discorso sul progresso attraverso il ricavo dei punti essenziali. Un ultimo autore, su cui vorrei soffermarmi, è Emanuele Severino, filosofo bresciano che ha dedicato tutta la sua vita alla filosofia, cercando di maturare un pensiero stabile (destinale secondo le sue grammatiche) lontano dal nichilismo, dall’annullamento dell’esistenza. Per lui il progresso scientifico insieme al fenomeno della tecnica rappresenta il punto nodale e più rappresentativo della società post-moderna:“La tecnica sta all’inizio della nostra civiltà ma il suo dominio è andato sempre più crescendo ed oggi noi viviamo nel dominio della tecnica e ogni aspetto della nostra vita dipende dal modo in cui la tecnica ha organizzato l’esistenza dell’uomo sulla terra” (Storia del Pensiero Occidentale, Mondadori 2019)”
Secondo Severino le forze della tradizione occidentale, ovvero il sapere filosofico, il cristianesimo, l’illuminismo, il capitalismo, la democrazia, il comunismo, inizialmente hanno concepito la tecnica come uno strumento, come un mezzo, guidato dalla concettualità della scienza moderna. Attraverso la propria potenza tecnologica, le forze culturali e politiche guerreggiano per una loro egemonia: ad esempio il capitalismo, che sostiene l’incremento del profitto privato, producendo diseguaglianze, e la democrazia che sostiene gli ideali di libertà e di uguaglianza, mettendo sullo stesso piano tutti si scontrano, mostrando tutta la loro potenza, il loro sviluppo, il loro progresso tecnico e scientifico.
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CHI HA RAGIONE? EINSTEIN OPPURE TODESCHINI?
Recentemente ho acquisito una documentazione e una stampa anastatica di un’opera a cura del Movimento Psicobiofisico Internazionale S.Marco fondato da Marco Todeschini. Premetto che Marco Todeschini è un fisico, critico della relatività Einsteiniana, fautore della Psicobiofisica e che le ricerche condotte da lui ai centri di sperimentazione aeronautica nei pressi di Pavia non abbiano avuto un riconoscimento ufficiale, una piena conferma della loro validità da parte della comunità scientifica e dei risultati che sono stati conseguiti. È curioso ma in concomitanza strano come lui abbia confutato le teorie Einsteiniane riconducendo il moto dei corpi non con conseguenze di deformazione dello spazio-tempo (i corpi massivi dovrebbero curvare il cronotopo ma i pianeti rispetto al sole da quelli più limitrofi a quelli più periferici come potrebbero orbitare dato che Einstein da per acclarato l’esistenza di un’inerzia perpetua insita dei pianeti il cui il sole dovrebbe produrre orbite ellittiche a seguito della deformazione spazio-temporale e quindi produrre i binari su cui sono in corsa i pianeti stessi) ma come frutto di un movimento sostanziale, fluido, immobile: quello dell’etere. Todeschini dice che se il treno, ritornando all’allegoria, è il pianeta e il binario è il percorso, ovvero l’orbita, che segue il treno come si muove quest’ultimo? Quale forza lo spinge? Sicuramente non si traina da solo… Einstein oltre a dare per scontato il moto dei pianeti e la loro rivoluzione non ha nemmeno addotto dei motivi che giustificassero questo movimento. Uno degli esperimenti che suffragherebbero la congettura secondo cui lo spazio non è immobile e curvabile in presenza di corpi massivi ma fluido-dinamico è «l’idroplanetario o il genegravimetro» una grande vasca d’acqua (ovoidale) in cui viene fatta calare una sfera rotante da un’asta appesa a dei giunti cardanici e immesse tante altre piccole sfere che a seconda della direzione in cui vengono fatte muovere sono attrattive o repulsive e, in base all’effetto Magnus della fluidodinamica, la sfera rotando su se stessa viene spinta verso il bordo della vasca, ai suoi margini. Questo dimostrerebbe la dinamicità dello spazio e che i pianeti non hanno un’inerzia perpetua insita e ingiustificata ma sono movimentati dalla sostanza eterea.
Einstein affermerebbe che il tessuto spazio-temporale è immobile e in presenza di corpi massivi è deformabile mentre Todeschini ritiene che lo spazio è un fluido dinamico, in moto (proprio come l’esperimento del genegravimetro che dimostra come la rotazione, coerente con la legge di gravitazione universale, delle sferette di legno a seconda del loro verso, concorde o discorde, esercitano rispettivamente una forza repulsiva o una forza attrattiva dimostrando la dinamicità del campo gravitazionale e quindi dello spazio circondante la sfera. Chi ha ragione? Einstein o Todeschini? -
CHE COS’È LA CROMODINAMICA QUANTISTICA?
La cromodinamica quantistica, quantum chromodynamics, è la teoria fisica che descrive l’interazione forte. È una teoria quantistica di campo che descrive l’interazione tra quark, e di conseguenza quella fra nucleoni, descritta matematicamente da una teoria di Yang-Mills basata sul gruppo SU(3) nella quale i quark si presentano in forma di tripletti di colore. È prevalentemente una teoria non-perturbativa, a causa di effetti come il confinamento, i condensati fermionici e gli istantoni. La sua elaborazione, iniziata negli anni cinquanta del Novecento, è stata completata nella sua forma attuale nei primi anni settanta, per la maggior parte attraverso modelli reticolari tridimensionali e simulazione al computer. Sebbene lo studio dell’interazione forte rimanga a tutt’oggi non del tutto chiara, la scoperta della libertà asintotica (proprietà di alcune teorie di gauge secondo cui le interazioni tra alcune particelle, ad esempio i quark, diventano arbitrariamente deboli a distanza molto basse) ad opera di David Gross, David Politzer e Frank Wilczek ha permesso di effettuare previsioni precise riguardo ai risultati di molti esperimenti ad alte energie utilizzando le tecniche della teoria perturbativa della meccanica quantistica.
Ogni aspetto teorico della fisica delle particelle è basato su certe simmetrie della natura la cui esistenza è dedotta dalle osservazioni sperimentali. Le simmetrie possono essere:– Simmetria locale, un tipo di simmetria che agisce indipendentemente in ogni punto dello spazio-tempo. Tutte le simmetrie di questo tipo si basano sulle teorie di gauge e richiedono l’introduzione di un proprio bosone di gauge.
– Simmetrie globali, simmetrie i cui calcoli devono essere applicate contemporaneamente in ogni punto dello spazio-tempo.
La QCD è una teoria di gauge del gruppo di simmetria SU(3) che si ottiene utilizzando la carica di colore per definire una simmetria locale.
Poiché l’interazione forte non discrimina tra differenti sapori di quark, la QCD ha una simmetria di sapore approssimativa che è rotta dalla differente massa dei quark. Vi sono ulteriori simmetrie globali la cui definizione richiede l’introduzione del concetto di chiralità che si distingue in destrogira e levogira. Ad esempio se lo spin di una particella ha direzione uguale alla direzione del moto della particella stessa essa è detta chiralità levogira mentre se ha direzione opposta è detta chiralità destrogira. -
PROGRESSO E SVILUPPO NELLA SOCIETÀ TARDO CAPITALISTICA.
Il Progresso è una parola che caratterizza la scienza nell’ottica di ciò che è futuro, mentre il presente rimane Ricerca.
In Scritti Corsari (1) Pasolini produce una distinzione dicotomica tra sviluppo e progresso: la tecnica non produce progresso, bensì sviluppo di disponibilità tecnica. Infatti la tecnica non ha scopi da realizzare, non ha scenari di salvezza da fare raggiungere, la tecnica è una strumentazione che tutti desiderano avere.
Il progresso si distingue dallo sviluppo perché il progresso è un miglioramento delle condizioni umane, è elevazione di stato sociale ed economico, il progresso è fare stare meglio le persone.
Ma Chi è che vuole lo sviluppo e chi è che vuole il progresso?
Secondo la distinzione pasoliniana, lo Sviluppo, concepito non quale concetto astratto e generale, ma riferito a questo sviluppo, ovvero quello posto in essere e mosso dalla società postmoderna e capitalista è voluto da una Destra economica, dagli industriali che mediante la tecnologia, applicazione della scienza, ha creato la possibilità di una industrializzazione illimitata i cui caratteri sono globali e transnazionali, e quindi i consumatori di beni superflui accettano irrazionalmente questo sviluppo.
La massa dunque vive per lo sviluppo, vive in una società liquida, perché lo sviluppo permette una promozione all’interno della società della tecnica ove i singoli non sono individui ma funzionari di apparato tecnico. Lo sviluppo ha quindi sostituito il carattere strumentale dell’ideologia diventando un fatto pragmatico ed economico.
Chi è a volere il progresso? A volere il progresso sono invece gli sfruttati dal sistema capitalistico, gli operai e il proletariato che vedono nel progresso, con ingenua speranza, una nozione ideale, sociale e politica di lotta interclasse e di trasformazione della società contemporanea.Non è detto che lo sviluppo dei mezzi tecnici costituisca automaticamente Progresso, perché può anche comportare un peggioramento della condizione dei ceti sociali.
La produzione della tecnica, o meglio delle tecniche che conducono all’efficienza dei fattori produttivi, non è per forza produzione di Felicità (eudaimonia).
È da domandarsi dunque: Che cosa Vuole la Tecnica?
Io risponderei a tale domanda con la risposta che Nietzsche si diede alla domanda “Che cosa vuole la Volontà di Potenzia?” La volontà di potenza vuole solo se stessa.
Tutti noi vogliamo lo sviluppo della tecnica perché è la condizione di realizzazione di qualsiasi scopo (telos).
L’uomo vuole -ingenuamente- lo sviluppo della strumentazione universale che non coincide necessariamente però con il miglioramento delle condizioni umane.Il sistema capitalistico aumenta le condizioni per fare crescere lo sviluppo, e tale sviluppo industriale, che tutti noi conosciamo, sta andando verso una direzione di logoramento delle risorse umane sulla Terra, lo sviluppo industriale sta de facto usurando la Terra.
Secondo Severino nel testo “il declino del Capitalismo”(2) la Tecnica eliminerà il Capitalismo.
In che modo?
Ad oggi però è veramente così?
Il Capitalismo per sopravvivere è destinato a passare dall’uso della terra alla sua usura, ma siccome la terra è il fondamento della ricchezza e la condicio sine qua non è impossibile creare profitto, e quindi il Capitale, il Capitalismo è costretto a ricorrere due Dominii: il Profitto e La Tecnica. Ci dovrà pertanto essere, auspica Severino, l’autolimitazione del profitto e del Capitalismo stesso.
La tecnica rallentando l’usura della terra costringerà il Capitalismo a depotenziarsi, anzi, a depotenziare e deincrementare la sua prepotenza e la sua arroganza(ubris).
È quindi la tecnica -secondo Severino- che salvaguarderà l’umanità, creando così l’effetto autolimitativo dello sviluppo capitalistico.
Bisogna ricordare che quindi sarà necessario arrivare alla decrescita, al punto di non circondarci più di oggetti superflui, di non accumulare elementi inutili e dunque Liquidi, il che non significa rinunciare alla felicità, ma significa rinunciare a ciò di cui abbiamo meno bisogno nella convinzione di salvaguardare un bene più grande: la nostra comunità.-la tecnica come soggetto della storia.
Il soggetto della storia non è più l’uomo come nell’ Umanesimo, non è più Dio come nel medioevo, non è più la ragione come nell’illuminismo, bensì il soggetto della Storia è diventata la Tecnica e non nella sua accezione di “ragione strumentale”(3) all’uomo, bensì come soggetto centrale che utilizza essa stessa l’uomo come funzionario nelle mani dell’apparato tecnico.
Si ricordi che la razionalità tecnica, come tutti gli eventi culturali nella storia dell’umanità , diffonde alcuni valori permeanti: in questo caso diffonde valori quali l’efficienza e la produttività.
Marx già nel 1840 (4) scrisse una frase emblematica e che ancora ad oggi è icastica perché realizzatasi: “Tutti sono persuasi dal denaro quale mezzo per soddisfare i bisogni e produrre i beni, se il denaro diventa la condizione universale per soddisfare i bisogni per produrre qualsiasi bene, il denaro non è più mezzo ma FINE la cui realizzazione dipenderà solo da quanto verrá prodotto”
Karl Marx quindi già nei manoscritti economico filosofici annunciava quella che poi verrà definita “Funzione allocativa del mercato”, ovvero l’allocazione ottimale delle risorse economiche, quale efficienza della produzione dei beni che comporta sempre l’allocazione ottimale dei mezzi di produzione e quindi al massimo Profitto(5).
Se la tecnica diventa la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo la tecnica non è più un mezzo ma è il primo scopo (protos telos) che tutti desiderano, che tutti vogliono, è quindi il desiderio desiderante che desidera l’efficienza e la produttività, unici valori perpetrati dalla società postmoderna della tecnica, perché senza quello scopo e senza il suo potenziamento tutti gli scopi diventano desideri irrealizzati.Heidegger(6) pensa alla tecnica come svelamento delle potenzialità della natura, rientrante nella storia della verità.
Per Heidegger l’uomo non è più concepito quale individuo con una sua identità , ma l’uomo come funzionario tecnico dell’apparato sociale.
La tecnica non è una grundnorm, la tecnica è in mezzo a noi, modifica il nostro sentire , modifica il nostro percepire, modificherà sempre il nostro modo di pensare.
In “L’Abbandono”(7) Heidegger ci dice che inquietante non è il fatto che il mondo si traduca in apparato tecnico ma inquietante è che non ci sia nessuna consapevolezza di tale traduzione del mondo, ed ancora più inquietante è che non disponiamo di un pensiero alternativo al pensare tecnico, perché nella società della tecnica il modus pensandi è quello di avvicinarsi sempre di più al pensare di un calcolatore: è fare i conti, in un mondo che gira attorno alle attività e alle passività del rendiconto e del bilancio, che sia di un’azienda o che sia dello Stato poco importa, l’uomo si sta meccanizzando e ai giorni nostri possiamo tranquillamente dire che tale previsione si è di fatto compiuta.
Siamo dunque all’interno dell’era della Tecnica, in una società postmoderna e in una società liquida(8), dove la tecnica e la tecnologia sono l’essere in divenire , l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza del futuro.
Viviamo in una società tardo capitalistica dove il consumo è centrale, il consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui soddisfare il proprio desiderio, ma che rende gli oggetti di cui ci circondano quotidianamente completamente obsoleti e il singolo individuo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo, anzi uno scopo c’è: il raggiungimento assoluto della tecnica.
Viviamo in una società liquida perché viviamo la convinzione che il cambiamento sia l’unica cosa permanente e che l’incertezza si l’unica certezza, in un contesto dove l’individuo è merce mercificante portandolo ad essere mero consumatore e non più soggetto centrale nella dialettica storica.
Possiamo dunque concludere che se non avverrà quanto detto da Severino, si delineerà ciò che già iniziato a delinearsi, ovvero la situazione (distopica) in cui il Progresso ha reso e renderà maggiormente inutile il lavoro di massa in relazione al volume della produzione.Scritto da Daniele Luigi.
Note:
(1) Pasolini, Scritti Corsari 1973-1975
(2) Emanuele Severino, Declino del Capitalismo
(3) scuola di Francoforte (Durkheim, Marcuse, Horkheimer, Adorno)
(4) Karl Marx, Manoscritti economico filosofici, 1844
(5)Musgrave “the theory of the public finance”
(6) Heidegger “La questione della tecnica”
(7) Heidegger “L’Abbandono ”
(8)Zigmunt Baumann “Modernità Liquida” 1999BIBLIOGRAFIA:
GALIMBERTI, L’età della tecnica e la fine della storia
Galimberti, L’uomo nell’età della tecnica 2011 -
Industria militare e fondi pubblici: riflessioni sulle recenti dichiarazioni di Mario Draghi
Articolo di Luigi Filippo Daniele,
Le parole di Mario Draghi sull’opportunità di sostenere l’industria militare europea con risorse pubbliche hanno aperto un dibattito che merita di essere approfondito. Come giovani liberali democratici, riteniamo fondamentale riflettere sulle priorità di spesa pubblica e sugli investimenti che possono davvero migliorare il futuro dell’Europa.L’attuale contesto internazionale, con la guerra in Ucraina e le crescenti tensioni geopolitiche, pone l’Unione Europea di fronte a sfide nuove in termini di sicurezza e difesa. È innegabile che l’Europa debba rafforzare la propria capacità strategica e difensiva, ma è altrettanto cruciale ricordare che le risorse pubbliche devono essere allocate con attenzione, considerando l’insieme delle esigenze della nostra società.
Le dichiarazioni di Draghi e le conseguenze
Mario Draghi ha recentemente suggerito di destinare fondi pubblici all’industria della difesa, con l’obiettivo di sostenere l’autonomia militare dell’UE. Da un lato, questa proposta risponde a una necessità concreta di protezione comune, ma dall’altro solleva dubbi sulla priorità assegnata a questo settore rispetto ad altri ambiti cruciali come la transizione ecologica, l’istruzione e la sanità.
Noi Giovani Libdem crediamo che il futuro dell’Europa non possa essere costruito esclusivamente su una politica di armamenti. Ci sono altre sfide che, se non affrontate con urgenza, rischiano di compromettere la qualità della vita delle generazioni future.
La necessità di una visione ampia per il futuro europeo
L’Europa si trova in una fase storica in cui la transizione energetica, la lotta alle disuguaglianze e la digitalizzazione rappresentano priorità irrinunciabili. Il cambiamento climatico, in particolare, richiede azioni immediate e investimenti significativi. Di fronte a queste sfide, la spesa militare dovrebbe essere valutata con estrema attenzione, chiedendosi se non sia più opportuno concentrare le risorse su soluzioni che possano garantire una sicurezza più ampia e duratura.
La competitività globale dell’Europa dipenderà dalla capacità di innovare e di sviluppare settori strategici come quello dell’energia verde, delle tecnologie avanzate e dell’istruzione. Investire in questi ambiti significa gettare le basi per una crescita sostenibile, capace di garantire occupazione di qualità e benessere sociale.
L’importanza di una difesa comune, ma non a scapito del resto
Una difesa comune europea è certamente un obiettivo condivisibile, ma non deve diventare la scusa per ridurre i fondi destinati ad altri settori essenziali. La sicurezza militare è solo un aspetto della sicurezza complessiva di un continente. La vera sicurezza si costruisce anche con politiche che riducano le disuguaglianze, che garantiscano un ambiente sano e che offrano opportunità educative e lavorative a tutti i cittadini.
Gli investimenti nell’industria della difesa devono essere accompagnati da una visione a lungo termine che metta al centro le persone, l’ambiente e l’innovazione. Solo così l’Europa potrà mantenere il suo ruolo di leader globale, non solo dal punto di vista della sicurezza, ma anche come modello di sviluppo sostenibile.
La voce delle nuove generazioni
Come giovani, abbiamo il dovere di farci sentire in questo dibattito. La nostra generazione si trova a dover affrontare sfide inedite, come il cambiamento climatico e la trasformazione digitale. Per questo motivo, crediamo che l’Europa debba concentrare i propri sforzi su investimenti che garantiscano un futuro migliore, più equo e sostenibile.
Non si tratta di sottovalutare l’importanza della difesa, ma di garantire che essa non diventi l’unico obiettivo strategico. La nostra sicurezza dipende anche, e forse soprattutto, dalla capacità di affrontare le emergenze ambientali, di ridurre le disuguaglianze e di creare un’economia capace di offrire a tutti una vita dignitosa.
Le dichiarazioni di Mario Draghi ci offrono l’occasione di riflettere su quali siano le vere priorità dell’Europa. Come Giovani Libdem Bellunesi, riteniamo che sia necessario bilanciare le esigenze di sicurezza con quelle di uno sviluppo economico e sociale sostenibile. L’industria della difesa non può e non deve diventare il fulcro delle politiche di spesa pubblica europea.
L’Europa del futuro deve essere un continente che investe nei giovani, nell’innovazione e nella transizione ecologica. Solo così potremo garantire un futuro di prosperità e sicurezza per tutti.
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PATRIMONIALE FRANCESE
La proposta di Michel Barnier di introdurre una tassa patrimoniale per i più ricchi in Francia ha sollevato un acceso dibattito politico. Ex commissario europeo e candidato del partito Les Républicains, Barnier ha avanzato questa misura come un atto di equità sociale, destinato a ridurre le crescenti disuguaglianze nel paese. Egli sostiene che la patrimoniale sia necessaria per garantire un contributo equo da parte delle fasce più abbienti e finanziare servizi pubblici essenziali. Tuttavia, l’idea ha trovato resistenze non solo tra i partiti di destra, che temono la fuga di capitali e la perdita di attrattiva della Francia per gli investitori, ma anche tra alcuni esponenti della sinistra, che chiedono misure più radicali per una redistribuzione efficace della ricchezza.
La tassa patrimoniale, già esistita in Francia ma abolita nel 2018 dall’amministrazione Macron per incentivare la crescita economica, potrebbe ora tornare come simbolo di una nuova politica redistributiva, specialmente in un momento di crisi economica e inflazione crescente. Barnier ha infatti dichiarato che il paese ha bisogno di unità sociale e che il contributo dei più ricchi è una questione di giustizia. La sua proposta rappresenta una sfida al modello economico attuale, ma è anche un tentativo di ridefinire la leadership conservatrice francese, ponendo una questione che va al cuore del dibattito su uguaglianza e crescita.
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