Di Emanuele Pestrichella.
I totalitarismi del Novecento sono stati, per certi versi, regimi truculenti contrassegnati da mire espansionistiche, antisemitiche, colonialistiche, imperialistiche volti alla soppressione dello spirito libero, dissenziente e non allineato.
Si provi pensare al regime nazionalsocialista in cui i dissidenti politici protestarono, refrattari alle politiche crudelmente razziste, alla scelta, da parte del Reich, della “Soluzione Finale”, con la decimazione integrale dell’etnia ebraica e alle deliberazioni prese durante la conferenza di Wannsee; oppure si pensi alla deportazione di sedicenti politici anticomunisti per la disapprovazione dell’instaurazione del regime bolscevico marxista-leninista, dopo lo scioglimento dell’assemblea costituente eletta nel novembre 1917, primo spiraglio del passaggio da suffragio censitario a suffragio universale (timido segno di democrazia parlamentare), nei gulag (campi di concentramento sovietici); o ancora, agli intellettuali, come Antonio Gramsci o al teorico del “socialismo liberale” Carlo Rosselli, dichiaratamente antifascista e in estrema posizione di incompatibilità col totalitarismo novecentesco all’italiana, uccisi dal brigantaggio fascista.
In questo scritto vorrei parlare del totalitarismo comunista nella maniera leninista e stalinista e spezzare qualche lancia a favore del partito comunista italiano, intellettuale di punta Antonio Gramsci e uno dei primi fautori Palmiro Togliatti, e come l’autore dei Quaderni del Carcere abbia sempre pensato e ripensato ad una svolta radicale della sua vita che lui chiamerà il suo più grande “drizzone”, eufemismo impiegato da Gramsci che ha potuto mitigare l’entità della sua decisione che avrebbe portato non poco risentimento e non poco subbuglio nei rapporti intercorrenti con Togliatti e col partito comunista sovietico. Per farlo bisogna partire da una premessa. Ai primordi del Novecento non esisteva il partito comunista sovietico. Era presente il partito socialista russo mentre al potere governava l’aristocrazia sovietica “Romanov”. Il partito socialista russo si dicotomizzava nei bolscevichi e menscevichi. I bolscevichi, capeggiati da Lenin, erano la fazione politica di maggioranza nel partito socialista russo. Erano l’ala massimalista, radicale, oltranzista del socialismo sovietico. Mentre i menscevichi erano la fazione politica di minoranza più democratica, moderata, liberale del partito socialista. Succede che scoppia la rivoluzione e i bolscevichi golpisti sovvertono l’assetto politico vigente destituendo la monarchia aristocratica zarista dei Romanov. Questo fenomeno storico verrà chiamato “Rivoluzione Bolscevica” (piccola parentesi: in Italia, nel cosiddetto biennio rosso degli anni ’20, si temeva una rivoluzione bolscevica alla stregua di quella sovietica ma ne è risultato solo un condizionamento superstizioso). La polizia politica, formata dopo la vittoria dei bolscevichi, assieme ai comitati locali di partito, vinsero le resistenze opposte dai contadini e dai rappresentanti delle nazionalità non russe (ucraini soprattutto) per le loro teorizzazioni promosse che ora vedremo. I bolscevichi teorizzarono un rigido statalismo dell’attività economica, spalleggiavano l’abolizione di ogni forma di proprietà privata dei mezzi di produzione, propugnavano la militarizzazione della società e, come tutti i totalitarismi monocratici a partito unico, sacralizzavano la politica erigendola a religione, quindi considerandola divina, dogmatizzavano l’ideologia, santificavano il partito, idolatravano il capo, indottrinavano le masse, propagandavano la loro politica esercitando il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa ecc..
Per questi aspetti vi furono numerose rivolte contadine e perfino un ammutinamento, quello dei marinai di Kronstadt. Nell’estate 1921, con la carestia che imperversava la Russia, Lenin e il gruppo dirigente del partito vararono alcune, seppur minime, aperture al libero mercato dei prodotti agricoli, a una certa borghesia (tecnici, ingegneri, ufficiali, piccoli imprenditori) non emigrata all’estero e soprattutto alle rivendicazioni delle nazionalità non russe. Non a caso, nel 1922, fu formalizzata la nascita dello “Stato Federale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”: l’URSS. Nell’ottobre del 1923 fallì l’ultimo tentativo della sinistra rivoluzionaria in Germania. La rivoluzione socialista divenne quindi un miraggio, un’illusione che trovò compiuta attuazione solo in Russia. La rivoluzione prevista da Marx non divenne forza antagonista e recalcitrante, “passione trasformatrice” nei paesi borghesi a capitalismo industriale avanzato ma in un paese come la Russia, con una popolazione eminentemente contadina e insipiente. Ecco che queste parole ci permettono di scollare l’ideologia marxista da quella marxista-leninista: ovvero sia mentre per il marxismo classico la rivoluzione avviene solo dagli operai proletari delle industrie, l’unica categoria degli oppressi, per il marxismo-leninista la rivoluzione degli oppressi può farla qualsiasi categoria lavorativa, in questo caso operai, contadini, artigiani ecc..
Dopo la morte di Lenin, nel 1924, ebbe la meglio Stalin, che propugnò la costruzione del socialismo “in un solo paese”, l’URSS appunto. Durante l’egemonia politica stalinista si puntò sull’industria pesante attraverso il lavoro forzato degli operai e sulla collettivizzazione forzata delle campagne, attraverso il sistema dei “kolchoz”, le cooperative agricole obbligatorie, e dei “sovchoz”, le aziende agricole statali, e la deportazione in massa dei contadini agiati, i “kulaki”, che rappresentavano l’èlite economica e politica delle campagne.
Le priorità strategiche della politica economica di Stalin gravitavano intorno all’industria bellica e a quella pesante, anche a scapito dello sviluppo dei redditi agricoli. Gli anni trenta furono gli anni delle cosiddette “grandi purghe”, l’eliminazione fisica, cioè, di tutti coloro che si opponevano, anche in seno al partito comunista, al potere assoluto e totale di Stalin. Durante la dittatura stalinista, si instaurò il culto dell’ordine, del gerarchismo e del capo. I capisaldi del totalitarismo staliniano furono il propagandismo e la repressione: ogni attività era finalizzata alla glorificazione e alla divinizzazione della patria russa e della sua guida, del suo capo (tutti i totalitarismi si nobilitarono a sciovinismo, caratterizzato da un rigido nazionalismo esaltatore ed elitario). Il modello era il lavoro volontario per l’edificazione del socialismo: l’eroe positivo fu il minatore “Stachanov” (da qui lavorare come uno stacanovista!). Durante la guerra Stalin appoggiò i governi dei fronti popolari, Francia (governo di Vichy) e Spagna (governo franchista) contro l’asse Roma-Berlino di Mussolini e Hitler. La vittoria contro il nazifascismo accrebbe massicciamente il mito popolare e internazionale di Stalin e dell’URSS, intesa come patria dei lavoratori e del socialismo. Dopo la morte di Stalin, che morì il 5 marzo 1953, vide la vittoria e la salita al potere di Nikita Chruscev, che iniziò un processo normalizzatorio, definito “destalinizzazione” che comportò l’abolizione del lavoro forzato, una maggiore autonomia alle repubbliche sovietiche, l’aumento dei prezzi pagati ai contadini dei kolchoz dagli ammassi statali ecc…
Adesso, dopo questo sguardo retrospettivo storiografico, vorrei aprire una parentesi sul comunismo Gramsciano-Togliattiano e sui legami intercorrenti col partito comunista sovietico, sull’incarcerazione indebita di Gramsci, dove trarrà una delle sue più celeberrimi opere, i “Quaderni del Carcere” scritto durante il suo periodo di reclusione messo in atto dal brigantaggio fascista e sulla sua decisione di abbandonare l’ideologia comunista, il suo più grande drizzone, ben consapevole dei crimini esiziali perpetrati durante gli anni del comunismo sovietico e delle prime forme di comunismo italiano. Durante la sua vita carceraria, Gramsci intratteneva un contrastato rapporto col partito comunista. I lavori che hanno contribuito ad uno studio più approfondito sulla personalità Gramsciana nel 2012, furono basati su una documentazione del tutto nuova: quella emersa dagli archivi ex sovietici. Le fonti riguardano la moglie e le cognate di Gramsci, le sorelle Schucht, che dopo la morte di Antonio accusarono Togliatti e i comunisti italiani di non aver voluto la sua liberazione dopo la carcerazione e chiesero a Stalin di rivendicare la gestione editoriale dei Quaderni del Carcere. Dal 1928, incaute iniziative propagandistiche avevano ostacolato le trattative per la sua liberazione. Le epistole che Gramsci, la cognata Tatiana e l’amico Piero Scaffa si scambiavano in questo periodo erano sottoposte ad un duplice controllo: quello dei secondini del carcere e delle autorità fasciste e quello del suo stesso partito. Da questo severo monitoraggio ne discende una dialettica argomentativa ed un uso della parola assai eufemistico, con il conio di neologismi, con la riesumazione di arcaismi e con il sottile gioco tra il detto e non detto con espressioni sovente codificate. La decisione di cambiamento, la “svolta radicale” tanto agognata da Gramsci, era quella di abbandonare il comunismo; l’errore che aveva dominato la sua vita era l’illusione comunista. Ma chiaramente non lo può dichiarare apertis verbis dacché altrimenti si alienerebbe i compagni italiani e avrebbe portato non poco scompiglio nei legami intercorrenti con Togliatti e col partito comunista sovietico e temeva fortemente che ciò avrebbe ripercussioni sulla sorte della moglie e dei figli in Unione Sovietica. Per questa decisione, Togliatti avrebbe stralciato ogni riferimento a questa svolta radicale giungendo ad occultare se non codificare e distruggere uno degli ultimi Quaderni che avrebbero potuto racchiudere rilievi critici mossi al totalitarismo sovietico e all’ideologia comunista in generale. Nei dibattiti internazionali, c’è un tema ricorrente sui Quaderni del Carcere, avanzato sistematicamente dai suoi interpreti faziosi e più ortodossi, suona così: “Gramsci era un comunista: l’obbiettivo che aveva in mente era la rivoluzione e il partito per realizzarla, il momento di necessaria ricomposizione e sintesi di istanze antiegemoniche che senza di esso resterebbero isolate e irrisolventi”. Questa è l’obiezione mossa dai “fanatici” interpreti marxisti nei riguardi di certi indirizzi dell’antropologia e degli studi culturali sottolineanti una relativa autonomia delle culture subalterne. Per i marxisti classicisti non è legittimo cogliere in Gramsci l’autonomia delle pratiche antiegemoniche, rivoluzionarie del proletariato se quest’ultime non sono integrate in una esplicita strategia rivoluzionaria diretta dal partito (restano irrelate quindi). A mo’ di Gramsci, secondo una celebre definizione proposta nei Quaderni della parola “folclore” potremmo dire che questa scorrelazione, inderogabile qualora venga meno il legame tra pratiche rivoluzionarie e conduzione di quest’ultime da parte del partito, non sarebbe altro che un “agglomerato indigesto di frammenti”.
È quindi per queste ragioni, come indicate ut supra, che il socialismo come prospettato nel 800 e nel 900 non può che essere una forma di Stato utopica , ancora di più se pensiamo all’evoluzione o involuzione del Capitalismo contemporanea e alla sua stretta correlazione con l’evolversi della tecnologia.
La tecnologia ed il capitalismo, come lo sono Oggi, impediscono una vera e propria realizzazione dello stato sociale e dello stato socialista: la televisione, i social media e i social network sono tutti strumenti in mano ad una élite che governa le menti e che non permette una compiuta realizzazione dell’uomo, ma Anzi, al contrario trasforma l’essere umano in un soggetto -oggetto isolato e distaccato non solo dalla realtà ma soprattutto dalla società.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
– Sito Treccani cit. “Il comunismo sovietico”
-Fabio Dei cit. “Ma Gramsci era ancora comunista? Filologia, memoria divisa e teoria sociale” , rimando a Fabio Dei cit. “Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco” prima ediz. 2018, casa editrice “Il mulino, Itinerari”.