Uno scritto di Emanuele Pestrichella
Riapriamo una pagina, aperta ma mai conclusa, sulla politica. In particolare del lavoro. In questo video cercherò di fare una disamina sulle due riforme pensionistiche che hanno improntato il trentennio del dibattito politico economico, dallo scandalo di Tangentopoli e l’inchiesta di Mani Pulite all’attuale esecutivo, di stampo Meloniano, ma anche in parte contrassegnato da Berlusconismo e da Salvinismo.
La prima riforma che analizzerò è la riforma Dini, voluta dall’allora premier Lamberto Dini, e si tratta di una riforma pensionistica e del settore pubblico e di quello privato. Esso prevedeva che, dal decorrere del 1 gennaio 1996, i lavoratori che avevano più di 18 anni di anzianità contributiva (somma degli anni, mesi e giorni in cui un lavoratore è iscritto ad un istituzione previdenziale obbligatoria, come l’INPS) la pensione di vecchiaia, che ora è fissata alla soglia di 67 anni, veniva calcolata col metodo retributivo. I beneficiari di questo reddito si trovavano in una posizione privilegiata in quanto essi fruivano di una pensione maggiorata, addirittura multipla, dello stipendio percepito. Invece i lavoratori con meno di 18 anni di anzianità contributiva, la pensione di vecchiaia veniva calcolata con il metodo “pro rata temporis” in forza del quale il reddito veniva percepito sulla base delle ore prestate al lavoro, una sorta di cottimo per dirla alla vecchia maniera. Infine coloro i quali avevano iniziato a lavorare dal 1996, la pensione di vecchiaia veniva percepita col metodo contributivo ovvero in base alle tasse versate al datore di lavoro. Questo per quanto riguarda la riforma Dini.
Invece la riforma Fornero, che prese il nome dalla professoressa economista Elsa Fornero, allora ministro del lavoro e delle politiche sociali nell’esecutivo tecnico Monti, prevedeva l’estensione pro-rata del metodo contributivo (veniva dato più tempo al lavoratore per versare più contributi e percepire quindi più reddito pensionistico) a quelli che erano precedentemente esclusi dalla Riforma Dini del 1995, che l’ha introdotto, (cioè coloro che nel 1995 avevano già 18 anni di contributi versati), a decorrere dall’1.1.2012; aumento di un anno delle pensioni di anzianità, ridenominate “anticipate” e abolizione delle cosiddette quote (somma di età anagrafica e anzianità contributiva); allungamento graduale entro il 2018 dell’età di pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici dipendenti private da 60 anni a 65;
Nel dibattito attuale serpeggia un malcontento pubblico in quanto mentre prima veniva previsto un integrazione dell’importo pensionistico ad un livello minimo per conto del sistema retributivo, nel sistema contributivo l’integrazione non è più possibile e il lavoratore sarà percettore di quanto maturato. Di qui l’alea di chi ha fatto una carriera discontinua e alternata da fasi di precariato, di ricevere una pensione irrisoria.
L’istanza mossa dai sindacati CGIL, CISL E UIL nel tentativo di creare una pensione contributiva garantita graduata rispetto agli anni prestati al lavoro e ai contributi versati che valorizzi anche i periodi di disoccupazione al fine di ottenere un assegno pensionistico dignitoso del lavoratore. Uno dei capitoli più importanti della riforma delle pensioni arriverà mercoledì 12 luglio al vaglio e al tavolo del dicastero del lavoro e dei sindacati.
–> commento di Luigi Daniele.
Nel 2023 circa il 70% delle pensioni italiane erogate dall’INPS è calcolato con il metodo retributivo, legato agli anni di lavoro. Come mostrano i dati dell’INPS, quest’anno il numero di pensioni a cui si applica questo regime è di circa 9 milioni su un totale di 13 milioni di pensioni considerate , infatti complessivamente in Italia vengono erogate circa 23 milioni di pensioni, di cui circa 18 milioni sono IVS.
L’importo medio per questa categoria è di 1091 euro al mese.
Le pensioni calcolate con il metodo contributivo puro, utilizzato per tutte le prestazioni pensionistiche a decorrere dal primo gennaio del 2012, rappresentano solo circa il 6,3% del totale, pari a circa 820.000 pensionati. In questo caso, l’importo della pensione dipende dai contributi che sono stati accantonati durante la vita del lavoratore, circa il 33% dello stipendio mensile. Attualmente, a questa categoria spettano in media 410 al mese.
La parte restante, ovvero 3,2 milioni di pensioni – 24, 5% – , segue invece un regime di liquidazione misto. Di questi 1,9 milioni rientrano nel regime misto che venne introdotto dalla riforma del governo Dini , ossia coloro che avevano maturato meno di 18 anni di anzianità alla fine del 1995 e percepiscono una pensione media di 1040€.
Gli altri 1.3 mln rientrano nel regime misto istituito dalla riforma Fornero, ossia coloro che hanno versato 18 anni di contributi entro la fine del 1995 e hanno diritto ad una pensione media mensile di 1970. Nel primo caso, la regola prevede l’applicazione del metodo retributivo fino al 31 dicembre 1995 e del metodo contributivo per il periodo successivo, mentre nel secondo caso il regime retributivo si estende fino al 2011.
La spesa pensionistica in Italia è destinata a crescere negli anni.
Si prevedono 65 miliardi in più nei prossimi 4 anni. Se guardiamo alla situazione partendo dal 2019, l’aumento è del 31% ovvero quasi un terzo in più in 8 anni punto all’interno di questa situazione finanziaria il nostro paese ha anche una delle età di pensionamento più alte al mondo ovvero 67 anni, perciò una parte della nostra politica E dell’opinione pubblica punta a delle opzioni di anticipo come quota 103, quota 41 o quota 100.
Basteranno?