LA SOCIALDEMOCRAZIA TEDESCA TRA RIFORMA LEGISLATIVA E RIVOLUZIONE SOCIALE
Di Andrea Soppelsa .
La proposta di Rosa Luxemburg.
Correva l’anno 1863 quando Ferdinand Lassalle fondava l’Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein, l’associazione generale degli operai tedeschi; pochi anni più tardi, August Bebel e Wilhelm Liebknecht avrebbero dato vita, invece, al Sozialdemokratische Arbeiterpartei Deutschlands, partito socialdemocratico operaio di Germania di dottrina marxista. Nel 1875, le due formazioni al Congresso di Gotha avrebbero deciso di unirsi: nacque così il Sozialdemokratische Partei Deutschlands, il partito socialdemocratico di Germania, la più antica formazione politica di massa tutt’oggi esistente nella Europa continentale. L’SPD concorse per la prima volta alle elezioni federali nel 1877; sebbene il programma di Gotha fosse minimalista – o lassalliano, come lo definì criticamente Karl Marx-, ciononostante Bismarck emanò nel 1879 delle leggi ricordate come antisocialiste, relegando alla semiclandestinità la nuova formazione politica. Le leggi bismarckiane, della durata biennale, non vennero rinnovate nel 1890, sicché, l’anno dopo, un nuovo congresso socialdemocratico, finalmente alla luce del sole, celebrato presso Erfurt, poté tirare le fila degli anni della clandestinità e programmare il futuro. Fu proprio ad Erfurt che iniziò a palesarsi il problema del divario esistente tra prassi e teoria in un partito di massa, specie in un partito di massa socialista (che vantava tra i padri nobili Marx ed Engels); in altri termini: nella sostanza, anche per le deficienze di Friedrich Engels, che seguiva il partito da Londra, i segretari e i funzionari locali praticavano una “politica del giorno per giorno”, intessendo collaborazioni con le autorità e gli altri partiti, attraendo a sé elementi della classe media-proprietaria (che aderivano al partito solamente per perseguire i propri interessi) e procrastinando sempre più di là da venire il momento rivoluzionario. Ciò accadeva soprattutto nelle aree meno industrializzate, in cui cioè la classe operaia era meno numerosa. Veniva finalmente posta in essere, dunque, la domanda: che fare? Una sorta di aut aut tra l’adesione ed, eventualmente, la collaborazione con gli elementi e le pratiche borghesi (come, del resto, stava per avvenire localmente in Baviera), oppure assumere una posizione di contrasto nell’attesa della crisi che avrebbe posto fine al capitalismo (e, in quest’ultimo caso, si poneva un’altra domanda e cioè se l’opposizione al sistema borghese sarebbe stata attiva o passiva da parte dei membri del SPD). La risposta del vertice del partito, incarnato da Bebel (ex lassalliano, convertito al marxismo) e Kautsky, concretizzatasi nel programma di Erfurt fu evidentemente insufficiente, niente più che una modalità per posporre la questione a tempi futuri; benché Bebel affermasse la prossimità della rivoluzione -tanto da promettere che in quella sala non vi sarebbe stato alcuno che non l’avrebbe vista- il programma di Erfurt riaffermava come base teorica il marxismo e prevedeva come base pratica un programma minimo di azione. L’ineffabilità di questa insoluta questione venne infine violata da Eduard Bernstein con una serie di articoli, dapprima assai cauti, pubblicati sulla Neue Zeit tra il 1896 e il 1898 sotto il titolo di Problemi del Socialismo. Secondo Bernstein, il fine rivoluzionario – retaggio e debito del marxismo – avrebbe dovuto cedere il passo in via definitiva allo scopo riformista: in breve, vista l’impossibilità di pervenire in tempi ragionevoli alla sovversione dell’ordine vigente, l’SPD -consiglia Bernstein– avrebbe dovuto abbandonare lo scopo rivoluzionario per concentrarsi nel miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne. Il Bernsteindebatte dava voce e forma teorica -sotto il nome, assegnatole, di revisionismo- a pratiche invalse, specie localmente, che sovente cozzavano con gli ideali e lo scopo del socialismo; ecco allora che Max Schippel proponeva di votare le spese militari per non lasciare i soldati tedeschi mal armati in caso di guerra (prefigurazione del drammatico -per la SPD- voto d’assenso ai crediti di guerra del 1914), mentre Heine sosteneva l’opportunità di una politica di “compensazione”, secondo cui i socialdemocratici avrebbero potuto mercanteggiare il proprio voto in cambio di concessioni nella politica sociale. Fin dal 1891 il leader della SPD bavarese, von Vollmar aveva enunciato la necessità di rinunziare alle discussioni teoriche per concentrare le proprie forze sulle questioni immediate. La corrente bernsteiniana, o revisionista, trovava dunque un terreno molto fertile in un partito in cui, già a livello apicale, si erano fatte molte concessioni agli entusiasmi parlamentaristici e le frasi rivoluzionarie, al tramonto del secolo, erano percepite come un insignificante debito linguistico marxiano, non erano più prese sul serio. È in questo contesto che esordisce la voce di una giovane militante di origini polacche e ascendenza ebrea, Rosa Luxemburg (1871-1919); la serie di articoli contro il revisionismo, pubblicati sulla Leipziger Volkszeitung, fu una vera rivelazione per i socialisti tedeschi: Rosa Luxemburg entrava a vele spiegate nel Bernsteindebatte e otteneva il diritto di parola al Congresso di Stoccarda del 1898, ove lei, Bebel, Clara Zetkin, Karl Kautsky e Schonlak si espressero contro le posizioni revisioniste, appoggiate, invece, da von Vollmar, Heine, Auer e altri. Il dibattito non trovò conclusione nel congresso, proseguendo in forma letteraria: Bernstein diede forma organica alla propria teoria in un volume intitolato Presupposti del socialismo, che ottenne risposta in Bernstein e il programma socialista di Kautsky e in nuovi, apprezzati contributi di Rosa Luxemburg, raccolti nel saggio Riforma sociale o Rivoluzione? (Sozialreform oder Revolution?), rivisto in forma definitiva nel 1908.
“Se le teorie sono immagini dei fenomeni del mondo esterno riflesse nel cervello umano, bisogna in ogni caso aggiungere, quando si tratta della teoria di Eduard Bernstein, che sono sovente immagini capovolte”
Bernstein sostiene incisivamente “Lo scopo finale, qualunque esso sia, per me è nulla, il movimento è tutto”. Secondo lui, il sistema capitalistico non è destinato a crollare per due ragioni: la differenziazione della produzione e la capacità di adattamento. In particolar modo, si denota la scomparsa delle crisi generali, fino ad allora pervenute a cadenza decennale; concorrono come mezzi di adattamento il credito, le organizzazioni imprenditoriali e il servizio di informazioni. L’impossibilità, o, addirittura, la non auspicabilità della fine del capitalismo si può ravvisare nella sopravvivenza dei ceti medi, nella tenuta della piccola-media industria e nella costante ascesa del proletariato a ceto medio, frutto quest’ultimo altresì della lotta sindacale, che, assieme al lavorio del riformismo legislativo, produce il miglioramento delle condizioni delle classi subalterne.
Pertanto, per il revisionismo, lo scopo della SPD non è tanto, o non è più, la conquista del potere politico, bensì l’estensione del controllo sociale e della cooperazione. Al che, il socialismo cessa di essere obiettivamente necessario, poiché Bernstein elimina -per le ragioni sopradette- la teoria della crescente anarchia capitalistica, uno dei fattori -assieme alla socializzazione della produzione e alla organizzazione e coscienza di classe– che conducono alla maturazione di per sé della crisi dell’economica capitalistica e producono le condizioni per il passaggio all’ordinamento socialista. Per i revisionisti l’instaurazione del socialismo avviene per via riformista, ovverossia mediante la lotta sindacale da una parte e la lotta politica (in parlamento) dall’altra.
Il controllo sociale sulla produzione, così come è stato teorizzato da Conrad Schmitt, prevede la progressiva riduzione del proprietario capitalista a semplice “gerente” sino a giungere alla gestione sociale.
Per Rosa Luxemburg la lotta per le riforma costituisce il mezzo ma lo scopo finale è la trasformazione della società attraverso la presa del potere politico e l’abolizione del salariato. Il revisionismo
“non è altro che l’inconscia aspirazione ad assicurare il predominio agli elementi piccolo-borghesi affluiti al partito”:
infatti, lo scopo finale socialista è il solo momento decisivo che “trasforma tutto il movimento operaio da una inutile rattoppatura per la salvezza dell’ordine capitalistico in una lotta di classe contro quest’ordine e per la sua abolizione, la domanda riforma sociale o rivoluzione? Nel significato bernsteiniano equivale per la socialdemocrazia alla domanda essere o non essere?”. Il sistema creditizio consiste nell’accrescere la capacità di espansione della produzione e nel mediare e facilitare lo scambio; esso fonde in uno molti capitali privati -società per azioni – facendo sì che un capitalista possa disporre dei capitali altrui (credito industriale). Dall’altra, accelera lo scambio delle merci, quindi il riflusso del capitale alla produzione (credito commerciale). Le crisi, com’è noto, si originano dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo: il credito è il mezzo più idoneo a portare all’acme questa contraddizione.
“Al primo segno di ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio (…) e riduce così al minimo durante le crisi la capacità di consumo”.
Così il sistema creditizio anziché essere uno strumento di adattamento del capitalismo diviene fattore generante crisi; “il primo mezzo di adattamento del capitalismo nei riguardi del credito dovrebbe essere quello di abolire il credito, di farlo retrocedere”. Per quanto concerne l’unione di imprenditori si nota che l’organizzazione può innalzare la quota dei profitti in una branca della industria soltanto a spese delle altre, dunque non può assumere carattere generale. Esse finiscono col produrre il dumping, quindi una maggiore anarchia sul mercato mondiale. Non appena il mercato inizia a contrarsi, ogni parte di capitale privato preferisce tentare la sorte per sé, facendo disciogliere le organizzazioni; i cartelli aumentano, tra le altre cose, la contraddizione tra il modo di produzione e il modo di appropriazione, in quanto contrappongono nella forma più brutale alla classe operaia la forza schiacciante del capitale organizzato e così accrescono al massimo l’antagonismo tra lavoro e capitale. Bernstein annuncia la fine delle crisi e, di conseguenza, l’errore marxiano; tuttavia, evidenzia Luxemburg, la formula dell’andamento ciclico del ricorso ciclico decennale delle crisi è stata per Marx ed Engels negli anni tra il ’60 e l’80 niente più che una mera constatazione dei fatti. Le crisi del XIX furono infatti crisi espansive del capitale, dovute a investimenti che estendono il terreno della industria capitalistica. Che le crisi si siano ripetuta ogni dieci anni è un fenomeno puramente casuale. A smentire Bernstein ha inoltre contribuito il fatto che, tra il 1907 e il 1908, la crisi sia deflagrata proprio negli Stati uniti, ossia nel paese in cui i mezzi di adattamento bernsteiniani erano più sviluppati.
Per Rosa Luxemburg una delle costanti della sua azione politica fu la lotta contro il revisionismo; mentre Bernstein consigliava alla SPD di moderare le proprie pretese per non spaventare i liberali, per Luxemburg la crisi del liberalismo e della democrazia è sì frutto dei conflitti di classe, che inducono la borghesia a divorziare all’occorrenza dalla democrazia stessa, ma proprio le spinte borghesi verso l’autoritarismo rendono il proletariato l’unico difensore della democrazia (dal momento che questa è l’unico quadro entro cui la coscienza proletaria si sviluppa e la sua organizzazione si rafforza). L’interpretazione luxemburghiana del marxismo vede nelle masse il soggetto rivoluzionario e nel partito una guida, ma non una organizzazione chiamata a sostituire le masse in virtù di una delega di rappresentanza. Perciò, poteva scrivere che “l’unico ruolo dei cosiddetti ‘capi’ nella socialdemocrazia sta in ciò: nell’illuminare le masse sui loro compiti storici”, al fine di rendere le masse guida di loro stesse. Pertanto, ella combatté tanto la versione revisionistica, che si poneva in contrasto con il carattere rivoluzionario del socialismo internazionale, quanto la versione bolscevica neogiacobina della rappresentanza delle masse. Tuttavia, le era ben chiaro che, solo se l’azione extraparlamentare delle masse fosse stata condotta senza timori, allora l’azione del partito entro il parlamento sarebbe stata eventualmente efficace. Invece, negli anni successivi, l’SPD sacrificò l’azione extraparlamentare a quella parlamentare, a sua volta sacrificata sull’altare delle esigenze dovute al compromesso coi liberali. Dunque, se per una larga parte del partito (tra cui i Bernstein e, per esempio, i Jaurès in Francia) una sola strada di accesso al potere si presentava come possibile, la conquista della maggioranza parlamentare, per i socialisti rivoluzionari, non si poteva riporre alcuna illusione circa la trasformazione del parlamento in un mezzo per la realizzazione anche dello scopo finale del socialismo.
Scriveva nel 1893 Franz Mehring, autore qualche anno più tardi di una imponente storia della SPD:
“L’idea che la maggioranza di un parlamento borghese, sia pure formata da operai coscienti, possa una volta aprire la strada alla società socialista, è come un coltello a cui manchi sia il manico che la lama. Solo quando la fede delle masse nel parlamentarismo borghese è morta del tutto, si apre la strada verso l’avvenire“.
La via corretta per i socialisti come Luxemburg stava nella combinazione del parlamentarismo con le lotte di massa fuori di esso, per cui la rappresentanza parlamentare del partito socialista assumeva il carattere “non solo di rappresentanza di un partito di opposizione, ma anche di rappresentanza di una classe rivoluzionaria”. Commentava Lelio Basso: “ il valore del contributo di Rosa Luxemburg non è tanto legato alla polemica contingente e parecchie delle sue affermazioni possono essere state smentite dai fatti, parecchi dei suoi giudizi contraddetti dalla realtà. Il valore essenziale di questo pensiero è nel metodo e il metodo è tutt’ora valido, anzi più importante oggi che la pratica dell’opportunismo, battezzato come realismo politico o anche politica delle cose, ha devastato pressoché tutto il movimento operaio occidentale”.
Il congresso di Hannover del 1899 votò una risoluzione di Bebel che condannava le posizioni di Bernstein, ma in sostanza lasciava in vigore lo status quo. Il 4 agosto del 1914 l’SPD votò al Reichstag i crediti di guerra, mettendo la parola fine sulla II Internazionale; pochi anni dopo, il presidente della Repubblica di Weimar, il socialdemocratico Friedrich Ebert, avrebbe ingaggiato i freikorps, i corpi franchi, che avrebbero assassinato Rosa Luxemburg e Karl Liebcknecht.
BIBLIOGRAFIA:
Massimo L. Salvadori, L’utopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, Laterza, Roma-Bari, 1992
Rosa Luxemburg, Riforma sociale o Rivoluzione?, Editori Riuniti, Roma, 1976
Franz Mehring, Storia della Socialdemocrazia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1974