INSEGNARE A TRASGREDIRE DAL MARGINE, bell hooks.
Scritto di ANDREA SOPPELSA
Gloria Jean Watkins nasce a Hopkinsville nel Kentucky nel 1952; a diciannove anni scrive Ain’t I a Woman?, primo libro di una ricchissima produzione che riguarda le intersezioni tra femminismo, questione razziale e classe e come queste informino la società e la sua produzione culturale.
È allora che adotta lo pseudonimo di bell hooks, minuscolo in spregio alle regole dell’autorialità e pseudonimo omaggiante la madre e la nonna per affermare -in controtendenza al patriarcato- la matrilinearità. È stata docente universitaria in prestigiose università statunitensi, come Yale, per poi decidere di far ritorno nel Kentucky dove è deceduta nel 2021. Tra i suoi scritti più noti: Insegnare a trasgredire, Elogio del Margine, il Femminismo è per tutti, la volontà di cambiare.
La produzione culturale di bell hooks prende le mosse dalla sua esperienza di donna nera proveniente da una comunità razzialmente segregata del sud degli Stati uniti. Bell hooks ricorda il senso di minaccia provato da bambina durante l’attraversamento dei quartieri bianchi per raggiungere la casa della nonna e, una volta giunta lì, la sensazione di ritrovata sicurezza. Ma nota anche che, sebbene in quella casa vi abitasse anche il nonno, per lei e per le sue sorelle quella fosse “la casa della nonna”: la casa è il dominio delle donne nelle menti delle persone, dice.
Le donne nere, diversamente dagli uomini neri, hanno dovuto sommare al lavoro domestico, il lavoro extradomestico per integrare il reddito familiare. Pertanto, secondo bell hooks, bisogna rendere conto di ciò e criticare la narrazione sessista che fa della casa un luogo naturale della donna nera, svilendo così la femminilità nera e la libera scelta di costruire un focolare domestico. Infatti, le donne nere hanno resistito erigendo case dove tutti i neri potessero lottare per essere soggetti e non oggetti e restituire la dignità che viene conculcata quotidianamente nella sfera pubblica. Questo sforzo è un gesto politico radicalmente sovversivo, è una modalità di resistenza; bell hooks cita un monaco buddista vietnamita, secondo il quale resistenza significa non lasciarsi invadere, occupare, assalire e distruggere dal sistema. È per questo che il patriarcato suprematista capitalista bianco, sintetico sintagma coniato da bell hooks, costruisce senza posa strutture economiche e sociali che sottraggano ai più i mezzi per darsi un focolare, poiché quando non si ha più lo spazio per costruirsi una casa, è impossibile costruire una vera comunità di resistenza. Tuttavia, la lotta di liberazione delle donne nere viene danneggiata anche dal tentativo di trasformare il sovversivo focolare domestico in sito di dominio patriarcale degli uomini sulle donne; nella vita degli uomini neri, i paradigmi della domesticità riflettono le norme borghesi bianche. Come causa di ciò, da una parte gli uomini neri dimenticano e svalutano l’importanza del lavoro delle donne, la loro capacità di insegnare una coscienza critica nello spazio domestico, dall’altra le donne nere adottano nozioni sessiste e mettono al centro della loro esistenza un consumismo dissennato e compulsivo.
Ancora nonna Baba la esortava sempre a “imparare a vedere”, cioè, in senso metafisico, ad imparare a intensificare la propria capacità di fare esperienza del reale mediante i sensi; la politica del colore, infatti, che si sostanzia nel razzismo, crea al contempo una estetica che ferisce e il desiderio del soggetto razzializzato di dare forma a una estetica della nerezza diversa e oppositiva. Per bell hooks nonna Baba, analfabeta ma capace di una non comune cura contemplativa per il bello, è l’epitome di una sfida agli intellettuali di sinistra che pensano che la capacità di ragionare in modo critico sia una funzione della classe e del privilegio sociale, quando invece il bello equivale a una forza da costruire e immaginare per creare un mondo capace di rinnovare lo spirito e renderlo vitale.
Ecco allora che il capitalismo avanzato influenza la capacità di vedere e il consumismo prende subdolamente il posto di quel malessere del cuore che spinge ad aspirare al bello; “oggi molti di noi aspirano soltanto alle cose” dice bell hooks. Il pensiero in campo estetico dell’autrice afroamericana si forma a partire dal riconoscimento della differenza tra la casa della nonna, in cui si percepisce un senso della storia, e quella dei genitori, nella quale non c’è posto per l’estetica ma solo per il possesso e l’accumulazione dei beni. Per bell hooks mai la mancanza materiale può impedire di guardare il mondo con occhio critico, riconoscendo il bello e utilizzandolo per migliorare il benessere interiore: mentre il capitalismo consumistico depreda i neri poveri alimentando in loro un’ansia di cose e di beni che impedisce loro di dare valore al bello, nella tradizione della comunità nera del sud degli USA, l’arte è esperita come strumento intrinseco della politica. I neri enfatizzano l’arte e la produzione culturale per confutare la propaganda dei bianchi che li vuole ridurre ad esseri animaleschi, subumani.
Il contatto con l’Altro bianco e con le sue produzioni culturali e le rappresentazioni dei neri nelle case proletarie nere meridionali dei quartieri razzialmente segregati avviene mediante la televisione; guardare la tv per bell hooks, che conoscerà per la prima volta un bianco solo a 16 anni, è la principale modalità per sviluppare un atteggiamento spettatoriale critico.
Lo sguardo è sempre politico: pertanto, poiché nel guardare c’è potere, agli schiavi e agli oppressi viene negato il diritto di guardare. Ma i tentativi di reprimere il diritto a guardare producono il desiderio di guardare, un desiderio ribelle, uno sguardo oppositivo; persino nelle peggiori posizioni di subordinazione la capacità di manipolare il proprio sguardo in sfregio alle strutture di dominio che lo reprimono sottrae alla passività. Per bell hooks esiste sempre un sito di resistenze, che è il corpo; e, mentre lo sguardo nero viene costantemente sottoposto al controllo sociale del potente Altro bianco, tv e cinema rappresentano l’unico modo per dare sfogo a desideri repressi. È quanto accade al maschio nero che, al cinema, può permettersi di guardare finalmente sullo schermo le donne bianche, mentre nella società per una simile azione sarebbe oggetto di pubblico linciaggio. Tuttavia, anche nel guardare sussistono dei rapporti di genere: fra maschio e donna nera l’esperienza spettatoriale è diversa.
Nel cinema Hollywoodiano la donna nera è ambivalentemente rappresentata come mammy, ausiliaria domestica di una famiglia bianca, madre senza figli propri che accudisce da bambinaia quelli dei signori bianchi e, pertanto figura assente -per usare una felice espressione di bell hooks- corpo non desiderabile tanto che lo spettatore bianco che vede nel film delle mammies nemmeno percepisce la presenza della donna nera; oppure come corpo ipersessuato, donna lussuriosa e per questo non realmente desiderabile. Per questo, le spettatrici nere hanno dovuto sviluppare relazioni di sguardo in un contesto cinematografico che costruisce la presenza della donna nera come assenza, che nega il corpo della nera per perpetuare la supremazia bianca e con essa una spettatorialità fallocentrica dove la donna da guardare e desiderare è solo ed esclusivamente bianca.
Le convenzionali rappresentazioni delle donne nere hanno fatto violenza alla loro immagine: molte spettatrici nere non ne hanno più volute sapere e, con un gesto di resistenza, hanno rifiutato il cinema. Altre sono state invece manipolate e ne hanno fruito con il necessario compromesso di dimenticare analisi, critica e razzismo intrinseco alla produzione hollywoodiana.
Per bell hooks il piacere che la spettatrice nera consapevole trae dalla visione del film deriva dalla capacità di guardare criticamente il film, analizzarlo e interrogarlo e creare poi testi alternativi. Perché, come dice Stuart Hall, l’identità si costruisce dentro la rappresentazione: il cinema non è uno specchio impegnato a riflettere ciò che già esiste, ma una forma di rappresentazione che è capace di costruire soggetti e di disvelare identità.
Anche il cinema si iscrive in quella che per bell hooks, sull’esempio gramsciano, è la creazione di pratiche culturali controegemoniche. È necessario trovare un punto di osservazione e prospettiva radicale per rispondere al bisogno di individuare spazi da cui iniziare un processo di re-visione, spazi di radicale apertura. Per bell hooks questo spazio è il margine. Il margine è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza; non si tratta, però, di una marginalità transitoria, che si spera di perdere: piuttosto, è un luogo in cui abitare perché si nutra la capacità di resistere; è il bisogno di resistere a renderci liberi, sostiene bell hooks, a decolonizzare le nostre menti e tutto il nostro essere.
“il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello che spazio al margino, che è luogo di creatività e potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi e agiamo con solidarietà, per cancellare la categoria colonizzato/colonizzatore. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì. Entrate in quello spazio, vi accoglieremo come liberatori.”
BIBLIOGRAFIA
Bell hooks, Elogio del Margine, Feltrinelli editore, Milano, 1998
Maria Nadotti, Scrivere al buio. Intervista a bell hooks, La Tartaruga, Milano, 1998