IO SONO UN GATTO

Di MATTEO MULÈ

Ricordo il giorno in cui mi imbattei nel titolo di questo libro. Un giorno invernale, probabilmente un giovedì (si era sicuramente un giovedì), mi fermai come sempre in libreria per dare un’occhiata ai libri usati perché, nonostante quel che si dica, sono i migliori. Il colore della carta, tendente ad un grigio, le macchie, le dediche perdute rendono meglio l’immagine della letteratura, una materia distante, forse vecchia, coperta di polvere, rispetto alle nuove copertine della Mondadori, più adatte alla vendita di DVD che di libri. Lo vidi nella parte sotterranea, in cima ad uno scaffale nascosto tra le ragnatele, quasi a voler coprire la verità che si celava al suo interno, perché dopo la sua lettura si esce cambiati (come forse ogni lettura). Non so dirvi se in modo migliore o peggiore. Mi taccio e lascio la parola a Natsume Sōseki, ma neanche a lui, al gatto che è il protagonista di questa storia.

 

L’intera vicenda è narrata dal punto di vista del gatto del professor Kushami, un insegnante di inglese alla continua ricerca di verità spiritiche all’interno del Giappone del XX secolo, in preda ad una forte industrializzazione alla pari delle grandi potenze occidentali.          Il gatto è il narratore che assume più la forma di un antropologo-sociologo intento a studiare il comportamento degli umani che si riuniscono sotto il tetto della casa del professor Kushami, rappresentato come una sorta di caffè letterario, colto nei suoi aspetti più comici e grotteschi. Banali e ironici sono anche i personaggi che frequentano l’abitazione: il logorroico Meitei, intento a dimostrare la sua superiorità morale ricorrendo a toni bassi e derisori; Dokusen, un filosofo a favore dello spiritualismo taoista in contrapposizione all’individualismo occidentale; il signor Kaneda, rappresentante della nuova borghesia convinta di poter comprare tutto e tutti con il denaro.

 

Il soggetto che viene messo più in derisione è il professor Kushami, vessato ogni mattina dalla moglie per via della sua pigrizia, incapace di imporsi sui propri studenti e su quelli della scuola vicina alla sua abitazione, incompetente anche nella materia che tratta, in grado di ricordare a malapena, e nei momenti sbagliati, alcuni esempi di letteratura anglo-sassone. Il professore diventa il rappresentante della classe sociale degli intellettuali giapponesi che, imitando gli europei, cercano all’interno del nuovo mondo, dominato dalla tecnica e dall’industria in cui l’arte e la letteratura vengono accantonate sempre di più, di trovare un senso alle loro giornate. Difatti, le intere conversazioni e riflessioni si svolgono nella casa del professore, uno scoglio in un mare dove il pensiero e il passato non contano più.

Se si vuole fare un lavoro di natura comparatistica, si potrebbero notare delle convergenze tra questo romanzo (pubblicato nel 1906) e le opere di Verga oppure di Zola. Difatti, a livello narrativo presenta tratti in comune con il movimento del Verismo italiano o del Naturalismo francese. L’intento dell’autore è quello di catturare il passaggio da una società prettamente agricola e con dei valori estremamente tradizionali ad una industriale che banalizza gli ideali del passato basando la propria logica sui valori legati al denaro. La narrazione, al contrario, risulta meno pesante e di difficile interpretazione; anzi, leggendo questo romanzo troverete una forte ironia e delle situazioni grottesche che generano quasi sempre un sorriso. Ciò non vuol dire che l’opera sia banale, poiché i momenti tragici sono dietro l’angolo, ma sono resi più leggeri, creando un racconto ove tragedia e commedia convivono (a differenza dei Malavoglia trattati a scuola, dove è assolutamente legittimo il senso di noia e di conseguente abbandono che si crea negli studenti). La morte c’è, ma a differenza della tragedia di Nedda di Verga, qui assume dei tratti più eroicomici, creando un sorriso amaro e non un pianto sul viso del lettore. Quel riso quasi leopardiano, in grado di mettere in ridicolo i miti della modernità.

 

Non mi addentro oltre perché capisco di essere stato prolisso per una breve presentazione. Concludo con una citazione che magari può fungere da stimolo alla lettura:

 

“La coscienza individualistica moderna consiste nell’essere troppo consapevoli della differenza esistente tra i nostri interessi e quelli altrui. E con il progredire della civilizzazione questa coscienza diventa più acuta ogni giorno che passa, al punto che non siamo più capaci di fare spontaneamente i gesti più semplici. Un certo Henley ha criticato Stevenson perché quando entrava in una stanza dove c’era uno specchio, ogni volta che ci passava davanti si sentiva obbligato a guardarsi, non era capace di dimenticarsi di sé nemmeno per un istante. “Io” “io” sempre “io” che siamo svegli o che dormiamo ci scontriamo in ogni momento e luogo con quest’io; di conseguenza le nostre parole e le nostre azioni sono diventate artificiali, meschine, limitate.”

 

 

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